Di fronte ad un evento traumatico gli esseri umani reagiscono in modo diverso in base a come funzionano e in base al tipo di impatto che ha il trauma sulla loro vita: questo ormai è noto da tempo.
Tra le varie condizioni al trauma esiste “la sindrome del sopravvissuto”. Questo fenomeno, che è stato documentato per decenni nella pratica clinica è un fenomeno diffuso nella popolazione ma scarsamente studiato e discusso in letteratura. A tal punto da essere addirittura scomparso dai recenti manuali psichiatrici diagnostici come il DSM (fino alla scorsa edizione del manuale psichiatrico veniva presentato come un fenomeno associato al Disturbo da Stress Post Traumatico – PTSD).
Tuttavia, rimane una condizione riconosciuto come un’esperienza gravemente paralizzante che accompagna chi ne soffre per tutta la vita e che spesso è davvero compromettente.
Cercando nella letteratura, ritroviamo il “senso di colpa del sopravvissuto” già negli scritti di Freud ad inizio del 1900. Più recentemente gli studi la ritrovano in numerose popolazioni traumatizzate tra cui i rifugiati/profughi (Bemak & Chung, 2017), i veterani (Currier, Holland, Drescher, & Foy, 2015) i sopravvissuti ad atti terroristici (Mallimson, 2005), gli omosessuali HIV-negativi (Wayment et al., 1995), genitori che hanno perso i figli (Fry, 1997), a chi ha sconfitto il cancro (Perloff, King, Rigney, Ostroff, & Johnson Shen, 2019) o più recentemente ai sopravvissuti alle forme più gravi di COVID-19.
Alla luce di questo sarebbe molto importante poter avere un modello di riferimento per la diagnosi e il trattamento e ci auguriamo che la ricerca inizi a studiarlo con più attenzione.
Cos’è la sindrome del sopravvissuto?
Sebbene sia un quadro che emerge a seguito di un evento traumatico sembra ormai piuttosto chiaro che non può essere banalmente considerata uno tra i sintomi di chi è affetto da PTSD o una condizione associata al PTSD. In primis non tutti coloro che sperimentano la colpa del sopravvissuto soddisfano i criteri del PTSD e inoltre i sintomi di questi due quadri sono piuttosto differenti. Ad esempio la paura e l’elevata attivazione fisiologica sono sintomi prototipici di chi soffre di disturbo post-traumatico ma sono poco presenti in chi invece convive con la sindrome del sopravvissuto.
Il nucleo alla base di questa condizione è il peso di vivere una situazione di privilegio a spese di altri o nel confronto con altri che appaiono maggiormente danneggiati (Kubany 1994). Spesso si aggiunge al quadro anche il senso di responsabilità dei sopravvissuti dovuto alla percezione (illusoria) di non aver fatto abbastanza per prevenire la catastrofe e le sue conseguenze (Parson 1986; Tangney, & Dearing, 2002). E’ come se ciò che è accaduto fosse dovuto a una nostra mancanza di abilità (“sono un incapace”) o di sforzi (“non ho dato il massimo”).
Il funzionamento psicologico prima dell’evento traumatico
Questo ultimo scenario è molto più complesso e variabile in quanto è condizionato molto dal funzionamento del soggetto prima dell’evento traumatico. La condizione di colpa esistenziale è centrata sull’idea di avere in qualche modo infranto delle regole e di non sapere come mai ci è capitato di salvarci.
Non c’è attualmente una concettualizzazione condivisa ma vengono spesso identificati pensieri di ingiustizia o di fortuna immeritata sulla propria sopravvivenza rispetto a quella di altri (Perloff et al., 2019; Pethania et al., 2018).
La valutazione può essere globale (es. “il mondo è un posto ingiusto”) oppure interpersonale (es. “l’altro si meritava più di me di sopravvivere”). Questi pensieri portano a sentire emoziono quali colpa e vergogna che si mescolano e si rinforzano in un circolo vizioso in cui “non meritavo di sopravvivere – devo aver fatto qualcosa di sbagliato – ho fatto qualcosa di sbagliato – quindi non meritavo di sopravvivere”.
Inutile dire che tanto più la nostra mente è acerba e immatura (es. tanto più siamo piccoli) e tanto più rigida sarà la fusione con questo cerchio vizioso maladattivo.
Fattori predisponenti
I fattori che in letteratura sono stati ipotizzati come implicati nella predisposizione alla sindrome del sopravvissuto sono diversi:
- Precedenti schemi negativi su di sé: individui con credenze negative su di sé del tipo “sono inferiore all’altro/sono meno meritevole” penseranno che sia ingiusto essersi salvati a discapito di altri e penseranno con molta probabilità che anche gli altri intorno a loto giudicheranno la loro fortuna come infondata e immeritata.
- Tipologia di evento traumatico: è stato ipotizzato che la sindrome del sopravvissuto affligga persone che sono scampate ad eventi che hanno causato molti feriti/morti (“solo in pochi si sono salvati”), in eventi in cui il soggetto ha fatto scelte impossibili (es. scappare da un edificio in fiamme o restare e salvare altre persone).
- La percezione di essere stato “sulla stessa barca” dei meno fortunati (come nel caso dei ricoverati in terapia intensiva durante il covid): pensare di avere avuto le stesse possibilità degli altri potrebbe amplificare il senso di ingiustizia.
Conseguenze a lungo termine e fattori di mantenimento
Il primo aspetto riguarda il tentativo di riportare l’equilibrio. Molti autori concettualizzano la colpa come un’emozione prosociale che promuove la convivenza nel gruppo. È possibile che “i sopravvissuti” sentano il bisogno di continuare a sentirsi in colpa per cercare in qualche modo di riparare allo squilibrio che si è generato all’interno del proprio mondo.
Pensiamo ad esempio al sistema familiare e a cosa accade quando un membro della famiglia, magari un fratello purtroppo muore o riceva la diagnosi di una grave malattia cronica. E’ possibile che sentirci in colpa e non abbandonare questa emozione possa essere l’unico modo che ci aiuta a sentirci ancora parte della famiglia, un modo per dimostrare a tutti quanto sia doloroso anche per noi quello che è successo.
Abbandonare la colpa potrebbe farci apparire come ingrati o addirittura indifferenti a quanto accaduto e rischierebbe di farci sentire meritevoli di esclusione e di rifiuto. In questo senso è probabile che i sopravvissuti cerchino di compensare in qualche modo il beneficio che hanno ricevuto salvandosi dall’evento. Potrebbero quindi perpetuare uno stile di vita dove la rinuncia al piacere diventa lo scopo principale (“non mi merito di stare bene” / “non posso stare bene”) (Pethania, Murray, & Brown, 2018).
In alternativa potremmo sentirci in dovere di fare di “più” della propria vita ignorando la fase di distress del trauma e le sue conseguenze sia fisiche che emotive.
Rientrano in questo processo anche i tentativi di “vendetta” verso chi si ritiene responsabile dell’evento traumatico, sempre come tentativo di ripristinare l’equilibrio.
La ricerca di spiegazioni e significati
Un altro punto cardine di questa condizione che rinforza e mantiene la colpa è la continua ricerca di significati e quindi la continua ripetizione di pensieri del tipo “e se…?” o anche de tipo “perché io?” che spingono ad una vera e propria ruminazione depressiva. Questa ci fa stagnare in un loop in cui siamo incapaci di accettare ciò che è successo e continuiamo a cercare nella nostra mente una logica (immaginaria) di ciò che è accaduto, rifiutando di accettare che è stato “un caso”.
Molti sopravvissuti sperimentano pensieri e memorie intrusive, anch’esse considerate sia un sintomo che un fattore di mantenimento della sindrome. Sia che sia presente o meno la diagnosi di PTSD queste intensificheranno la sensazione di colpa.
Comuni tra coloro che hanno il senso di colpa del sopravvissuto sono infine le valutazioni secondarie sulla colpa (le metacognizioni) ovvero “cosa pensiamo, come valutiamo” il fatto di sentirci in colpa. Per alcuni la colpa è considerata una giusta punizione, per altri è un reminder di quello che è successo. In ogni caso, dare un valore alla colpa in termini di giustizia impedirà al sentimento di risolversi e ostacolerà ogni tentativo terapeutico di gestirla.
Cosa fare? Implicazioni cliniche per la gestione del senso di colpa del sopravvissuto
Come abbiamo già detto non c’è un modello clinico di questa sindrome ed è tuttora considerata una condizione transdiagnostica. Le psicoterapie a stampo cognitivo-comportamentale, soprattutto nella sua terza generazione, offrono una buona lettura della colpa del sopravvissuto e delle utili tecniche di intervento. Vediamo i punti chiave con cui affrontare questa sindrome.
Validare il senso di colpa
Fornire informazioni che spieghino, diano valore e normalizzino la sensazione dell’individuo è sicuramente il primo passo verso una gestione post-traumatica più sana e funzionale.
Spiegare i meccanismi alla base del trauma e soprattutto comprendere che funzione ha avuto e ha per noi la colpa (e le sue conseguenze sui nostri comportamenti) ci permette di diventare molto più consapevoli di noi stessi, di quello che ci è accaduto e di come ha ancora un impatto su di noi.
Essere rassicurati che la colpa in qualche modo è stato il nostro modo di proteggerci da un impatto ancora più pericoloso è fondamentale per iniziare a incuriosirci su altre possibili opzioni. La validazione inoltre è da considerare in questo caso come il più prezioso ingrediente terapeutico.
Identificare le valutazioni di ingiustizia
Il secondo step sta nell’identificare le credenze in merito all’ iniquità dell’evento che hanno prodotto in primis il senso di colpa del sopravvissuto.
L’obiettivo è aiutare la persona a spiegarsi come queste credenze si sono integrate al proprio funzionamento e lo hanno inizialmente aiutato a processare il trauma: è fondamentale comprendere insieme che significato ha avuto per quella specifica persona l’essere sopravvissuto a quello specifico evento.
La CBT offre numerose tecniche per realizzare insieme al paziente una buona concettualizzazione della colpa. Inoltre è importante chiarire meglio quanto la persona abbia realmente avuto il controllo di ciò che è accaduto e a seconda di questo aiutarla ad accettare l’impotenza o a processare le proprie scelte (spesso non risolutive).
Separare il fatto che noi siamo sopravvissuti dal fatto che altri hanno avuto un esito diverso è un buon punto di partenza e aiuta a riequilibrare le proprie cognizioni (senza mettere in conflitto l’idea di essersi salvato con l’idea che altri non ci siano riusciti). Nel lavoro con questi aspetti l’uso di pratiche esperienziali come l’uso di interventi immaginativi (es. l’Imagery rescripting) si sono rivelate molto efficaci (Murray, Medin, & Brown, 2020)
Affrontare il vantaggio secondario che mantiene la colpa
Tecniche esperienziali e immaginative ci possono aiutare ad affrontare il vantaggio che ha per noi adesso sentirci “ancora” in colpa.
Questo potrebbe essere considerato il cuore dell’intervento in quanto sarà importante familiarizzare sempre di più con il nostro vantaggio e piano piano, rispettosamente, iniziare a mettere in dubbio che la colpa è, ad esempio, un modo per rimanere connesso al defunto, ma che non è l’unico.
Incuriosirsi, trovare alternative ci aiuterà a non avere più bisogno di sentirci in colpa.
Lavorare sulla Ruminazione
Il lavoro sulla ruminazione ha come scopo lo spostamento del focus dalla “lotta” contro quello che è accaduto, in cui rimaniamo a cercare opzioni diverse e elementi che avrebbero fatto la differenza, verso il senso di “accettazione” di quello che è successo.
Accettare è una parola controversa nel nostro linguaggio ma di fronte a qualcosa che è già accaduto, accettare la realtà è l’unico grande primo passo verso il futuro. Sarà un futuro diverso e sarà necessario un riadattamento di aspettative, ma d’altro canto la lotta ci fa rimanere fermi al tempo del trauma.
L’accettazione non riduce l’impatto del trauma, anzi, spesso aiuta ad integrarlo al resto della nostra storia.
Ripristinare l’equilibrio
L’ultimo importante passaggio per la gestione della colpa del sopravvissuto è il lavoro circa la mission di compensare la fortuna avuta e riportare la propria situazione in “equilibrio”.
Non è ancora chiaro quanto il “fare del bene” dopo essere sopravvissuti sia un fattore protettivo o un fattore di mantenimento della sindrome. Ma è stato osservato che chi investe le proprie energie per fare del bene ha meno pensieri negativi, rumina meno sull’evento ma mantiene inalterato il proprio senso di colpa.
Sebbene siano necessari ulteriori ricerche in merito, è chiaro che il “fare del bene” fa comunque capo ad una credenza disfunzionale sottostante. Ovvero che in qualche modo l’individuo debba “ricompensare” il mondo per la fortuna che ha ricevuto.
Rimane quindi l’idea che più che investire il tempo in attività di riparazione possiamo investire del tempo in attività positive (col giusto tempo), non legate all’essere sopravvissuto.
Questo è tanto più possibile quanto più abbiamo lavorato sui punti precedenti e si è ormai più disponibili all’idea che abbandonare la colpa, il lutto e smettere di subirne le conseguenze non ha niente a che vedere con il dimenticarsi di ciò che è successo o con il provare meno dolore per chi purtroppo è stato più sfortunato di noi.
Bibliografia
- Bemak, F., & Chung, R. (2017). Refugee trauma: Culturally responsive counseling interventions. Journal of Counseling & Development., 95(3), p. 299-308.
- Currier, J., Holland, J., Drescher, K., & Foy, D. (2015). Initial psychometric evaluation of the Moral Injury Questionnaire—Military version. Clinical Psychology & Psychotherapy., 22(1), p. 54-63.
- Mallimson, K. (2005). ProQuest Dissertations & Theses A&I; 2005. Survivor guilt and posttraumatic stress disorder 18 months after September 11, 2001: Influences of prior trauma, exposure to the event, and bereavement. Tratto da http://search.proquest.com/docview/305108443?accountid=13626.
- Mancini, F. (2008). Il senso di colpa altruistico e deontologico. In F. Mancini, Cognitivismo Clinico. (p. 123-144).
- Matsakis, A. (1999). Survivor guilt: A self-help guide. New Harbinger Publications.
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- Murray, H., Medin, E., & Brown, G. (2020). Treatment of survivor guilt after trauma using imagery rescripting: a proof-of-concept study. Behavioural and Cognitive Psychitherapy, p. 1-5.
- Murray, H., Pethania, Y., & Medin, E. (2022, Sep). Survivor Guilt: A Cognitive Approach. Cogn Behav Therap, 14, p. E28.
- Perloff, T., King, J., Rigney, M., Ostroff, J., & Johnson Shen, M. (2019). Survivor guilt: The secret burden of lung cancer survivorship. Journal of Psychosocial Oncology., 37(5), p. 573-585.
- Pethania, Y., Murray, H., & Brown, D. (2018). Living a life that should not be lived: a qualitative analysis of the experience of survivor guilt. Journal of Traumatic Stress Disorders and Treatment, 7(1).