L’Outdoor Training è un concetto di cui si sente sempre più spesso parlare nelle realtà aziendali del nostro Paese, anche se non ancora in maniera così diffusa come in nord Europa e negli USA; vediamo meglio di che cosa si tratta, qual è la storia e l’utilità, approfondendo le sue caratteristiche ed i suoi obiettivi.
L’espressione inglese “Outdoor Training” (letteralmente “allenamento all’aperto”) viene usata per riferirsi ad attività che sviluppano apprendimento attraverso l’esperienza. Si svolgono in spazi aperti, nella natura, in luoghi diversi e, possibilmente, “distanti” dalla realtà aziendale. In italiano viene, in genere, chiamata “Formazione Outdoor” e riguarda lo sviluppo di comportamenti organizzativi tramite l’uso di metafore e la sperimentazione di contesti nuovi, fuori dalla vita quotidiana, dove si possono appunto fare esperienze sulle competenze relazionali/sociali e/o manageriali che si vogliono sviluppare.
E’ una metodologia di formazione esperienziale che si impiega generalmente all’interno di aziende di vario tipo (rivolta a dipendenti, consulenti, dirigenti, manager, ecc.), la quale va oltre una concezione strumentale dell’apprendimento, non più finalizzato alla carriera e al successo, ma all’individuo nella sua totalità, affinché esso possa realizzare tutte le proprie potenzialità e, quindi, divenire efficace anche all’interno di un gruppo di lavoro/contesto relazionale.
Il fattore discriminante della nuova metodologia, pertanto, non si fonda su elementi quantitativi (es. maggior numero di conoscenze o competenze possedute), quanto piuttosto su aspetti qualitativi (es. migliore gestione delle conoscenze o competenze possedute). Vivere in prima persona qualcosa, anziché farselo raccontare, aumenta moltissimo le probabilità che dall’esperienza si generi apprendimento, che quanto appreso permanga nella nostra memoria e che cambi concretamente i nostri comportamenti e le nostre azioni.
“Experential learning”, “Learning by doing” o “Apprendere facendo” sono infatti le parole d’ordine di questo metodo, che permette di incrementare non solo le abilità tecniche o di business nei lavoratori, ma anche quelle interpersonali e sociali. Esso rappresenta uno strumento formativo totalmente stimolante e coinvolgente, che porta i partecipanti ad imparare in modo diretto ed immediato e a far affidamento su tutte le proprie risorse per raggiungere obiettivi individuali e comuni, accelerando il normale processo di conoscenza. La persona è impegnata nella sua interezza: mente, corpo ed emozioni. Si dimostra come, grazie ad un corretto lavoro di gruppo, gli ostacoli insormontabili possono essere superati.
L’efficacia del corso è misurata da come i partecipanti memorizzano ciò che apprendono e da come applicano quanto appreso, nelle loro attività quotidiane. Le sfide proposte stimolano il lavoro di problem-solving, non seguendo un approccio tradizionale. L’O.T. sembra, in sostanza, rispondere pienamente alle esigenze delle organizzazioni contemporanee, che si muovono in contesti di continui mutamenti e che esigono dai soggetti la capacità di sviluppare doti di flessibilità e creatività, competenze trasversali che facilmente si prestano ad essere “spese” in situazioni diversificate e variabili.
Ci si può avvalere di differenti attività, che vedremo successivamente; comunque, qualunque sia quella scelta, sarà sempre preceduta dal briefing e seguita dal debriefing, in entrambi i casi guidati dalla figura del facilitatore (o trainer).
Il briefing è l’incontro volto alla definizione degli aspetti operativi e degli obiettivi di una determinata iniziativa, mentre il debriefing è il momento di riflessione che si verifica dopo aver vissuto l’esperienza outdoor. Secondo il modello di Mitchell, il debriefing si compone di 7 fasi:
1. Introduzione alla spiegazione dell’attività svolta e al lavoro di gruppo;
2. Discussione dei fatti accaduti durante l’attività attraverso le “narrazioni” e le prospettive multiple dei partecipanti;
3. Discussione dei pensieri/cognizioni avuti durante lo svolgersi dell’attività;
4. Discussione delle emozioni provate durante lo svolgersi dell’attività;
5. Discussione degli effetti eventualmente conseguenti all’attività;
6. Informazioni aggiuntive sull’attività svolta, in modo particolare quelle che non sono emerse durante la discussione ma che, presumibilmente, in base all’esperienza del facilitatore, possono riguardare ogni gruppo;
7. Conclusione anche con modalità informali tipo cena, aperitivo o altro.
La fase di debriefing è per definizione breve, altrimenti si parla di “rielaborazione”, più lunga ed approfondita, durante la quale si analizzano le dinamiche emerse e si riportano le deduzioni tratte alla realtà lavorativa. Il facilitatore ha il compito di proporre ai partecipanti le varie attività pratiche, osservando gli sviluppi ed aiutandoli, poi, a far emergere gli aspetti più rilevanti dell’accaduto. Esso deve possedere specifiche competenze e, soprattutto, deve essere in grado di gestire situazioni relazionali, dinamiche di gruppo e circostanze emotivamente impegnative; inoltre, deve essere capace di cogliere e sviluppare le potenzialità del singolo individuo e del team verso cui è rivolto il proprio intervento.
Questo tipo di esperto (in Italia ne esistono veramente pochi) è un professionista che, partendo dagli obiettivi del committente, è in grado di “progettare esperienze”, cioè capire attraverso quale tipo di attività e/o situazioni si possono raggiungere proprio quegli obiettivi aziendali. Come sempre, è importante evitare ogni tipo di improvvisazione, altrimenti si rischia di ritrovarsi a fare una semplice gara di go-kart o una caccia al tesoro prive di scopo e di senso.
La differenza tra un O.T. qualunque ed un O.T. di qualità consiste in questo: nel primo caso i partecipanti si ricordano di avere giocato, di avere costruito ponti tibetani, ecc. e basta; mentre nel secondo i soggetti, una volta tornati al lavoro, migliorano il loro modo di lavorare in team, ricordandosi a vicenda di fare e/o non fare quello che è successo al corso outdoor, mentre giocavano, costruivano ponti tibetani, ecc.
Riassumendo, possiamo dire che gli elementi che caratterizzano l’O.T. sono i seguenti:
– La sperimentazione attiva e l’esperienza pratica, che rappresentano la base dell’apprendimento e la costruzione della competenza (le attività svolte sono delle metafore di reali situazioni lavorative, nelle quali bisogna gestire risorse limitate, scadenze pressanti, personalità diverse, motivazioni di segno e livello differenti);
– L’osservazione e la riflessione, che consistono in contesti spazio-temporali creati per ripensare all’esperienza appresa, affinché si possa originare quel processo definito ‘apprendere ad apprendere’ e, dunque, si possa acquisire consapevolezza della formazione avvenuta;
– La generalizzazione, che implica la possibilità di trasferire gli apprendimenti verificatisi (punti di apprendimento o “Learning point”) in contesti diversi rispetto a quelli in cui si è prodotta la formazione.
In diverse aziende sono state realizzate attività all’aria aperta non solo per quadri e dirigenti, ma anche per operai e impiegati, prendendo in prestito l’idea e i materiali da altri contesti come il mondo della natura, dello sport e del gioco, al fine di migliorare:
– le capacità comunicative: dare feedback costruttivi, proporre le proprie idee, parlare in pubblico, costruire rapporti collaborativi con altri;
– le capacità cognitive: risolvere problemi, divenire più creativi, ecc;
– il benessere psicofisico: gestire lo stress, gestire l’ansia, promuovere stili di vita sani, ecc.
L’O.T. si svolge all’aria aperta non solo per consentire uno sviluppo più armonioso dell’individuo con l’ambiente circostante e di cui è parte, ma anche per consentire ai partecipanti di incontrarsi e sperimentarsi in diversi ruoli e contesti organizzativi. A livello del singolo soggetto consente:
– lo sviluppo e la restituzione di abilità e competenze cognitive, culturali, sociali e lavorative;
– lo sviluppo dell’autostima, attraverso la sperimentazione con successo di identità e ruoli funzionali.
Non si dimentichi come, inoltre, l’apprendimento esperienziale implichi dei benefici a livello di gruppo. L’organizzazione aziendale che lo utilizza si arricchisce di una maggiore conoscenza delle interazioni tra individuo e ambiente interno, ed una più efficace gestione delle dinamiche di relazione interpersonale attraverso lo sviluppo di un “clima di compartecipazione”.
Infatti, generalmente, può essere usato per sviluppare molte abilità relazionali e manageriali, fra cui le più evidenti sono:
Team building (tradotto in italiano con “costruzione del gruppo”), consiste in svariati aspetti, quali: facilitare la comunicazione, stimolare ed aumentare la collaborazione e la coesione, costruire e potenziare relazioni interpersonali, creare un clima di fiducia e di stima, stimolare la creatività, educare alla delega, sviluppare l’empatia e l’ascolto, veicolare “vision”, “mission” e valori aziendali, avvicinare management e personale operativo, sviluppare la motivazione, orientare al lavoro per obiettivi, con il fine ultimo di far sentire il gruppo una vera squadra.
Leadership, osservare le dinamiche di gruppo, interagire con i suoi membri, saperli condurre, influenzare con le proprie idee, dirigerli.
A fronte dei numerosi ed indubbi benefici citati, è comunque doveroso indicare anche i punti deboli della stessa: costi elevati, tempi lunghi nella messa in atto, la difficoltà del trasferimento in azienda di quanto appreso nel corso dell’esercitazione, se la stessa non è seguita a dovere da una puntuale attività di restituzione e riflessione condotta da un professionista esperto.
Le possibili attività sportive da svolgere sono varie, naturalmente vengono scelte a seconda della tempistica, della logistica e degli obiettivi che si intende perseguire; ognuna ha caratteristiche specifiche e, proprio per questo, può esser più o meno adatta a determinati contesti. Tra le più diffuse, più o meno estreme, ci sono:
- vela
- arrampicata
- kite surf e snow kite
- orienteering
- rafting
- ponte tibetano
- mountainbike.
Si tratta perlopiù di sport nei quali si devono metter in gioco le proprie capacità e quelle del gruppo, si lavora sul problem solving e sul coordinamento, si impara a fidarsi degli altri e si capiscono i propri limiti. Per garantire una buona riuscita, il formatore deve pianificare tutto (tempi, difficoltà, situazione meteo); inoltre, è molto importante capire con quale target di persone si lavora (età, esperienza, esigenze).
E’ comunque essenziale ricordare il concetto di “libertà di adesione”: nessuno deve sentirsi obbligato a partecipare all’attività, nonostante in certi casi possa esser utile misurare la personale capacità di adattamento psicofisico e la gestione del rischio.
Per quanto riguarda la storia, possiamo fissare la data ufficiale della nascita dell’O.T. nel 1941, quando il pedagogista tedesco Kurt Hahn, insieme all’armatore inglese Lawrence Holt (presidente della “Blue Tunnel Line”), fonda una scuola nel Galles (Inghilterra), basata su un programma educativo in cui i giovani aristocratici svolgono attività pratiche culturali ed avventurose; inizialmente, si chiamava “Scuola di formazione accelerata del carattere” ed era incentrata su operazioni di salvataggio in mare, con l’obiettivo di formare personalità forti ed eticamente corrette. Era anche conosciuta come “Outward Bound”, abbreviazione del motto: “Esci al largo, fuori dalle acque sicure ma stagnanti del porto”. I corsi duravano quattro settimane in regime residenziale e riguardavano centinaia di giovani tra i 15 ed i 19 anni.
Prima di approdare in Inghilterra, però, il percorso di Hahn era stato piuttosto travagliato, infatti aveva iniziato il suo lavoro già nel 1919 sul lago di Costanza, con l’intenzione di creare una leardership tedesca di uomini completi, forti, capaci sia di pensiero che di azione autonomi, ma fu costretto a chiudere a causa della cultura conformista che stava creando il nazismo, che in quegli anni andava consolidandosi, e ad emigrare andando in esilio prima in Scozia e poi in Inghilterra. I suoi autori ispiratori erano Rousseau e Montaigne con la “Nouvelle Education”, Herbart con la “Scuola di Iena” e Lietz, che aveva già creato in Germania le “Scuole Popolari” nel 1897, rifacendosi alla pedagogia di Goethe.
In seguito, grazie ai successi ottenuti, il suo metodo giunse anche negli Stati Uniti intorno agli anni ’50, dove fù utilizzato dalle forze armate per sviluppare la leadership e per il reinserimento dei reduci del Vietnam; la formazione outdoor, dunque, si diffonde anche al di fuori degli ambiti originari, cioè l’educazione dei giovani, e sarà applicata con successo alla formazione degli staff di uomini politici, dei manager e del personale di grandi aziende, degli universitari.
L’O.T. tornerà in Europa negli anni ’80, riscontrando inizialmente diffidenza, specialmente in Italia, dove si affermerà lentamente dovendosi adattare a cultura e mentalità differenti; riuscirà ad emergere dagli inizi degli anni ’90, in seguito a programmi di formazione internazionale di multinazionali americane che coinvolgono anche le loro filiali nel nostro paese.
Le teorie alle quali si rifanno risalgono ai primi studi di psicologia dei gruppi, in particolare a Kurt Lewin, esponente della corrente della Gestalt, secondo il quale l’apprendimento è un cambiamento che avviene nella struttura del campo cognitivo della persona, sotto la spinta dei suoi bisogni, delle sue aspirazioni e delle sue motivazioni. A tutto ciò, si unisce la dimensione del gruppo come ambiente di confronto, che diventa parte dell’apprendimento stesso.
Grazie alle sue ricerche sulle dinamiche di gruppo mise a punto un metodo che chiamò “Action-research”, usato in seguito per creare la metodologia del “T-Group” (“T” come training), che ebbe una grande diffusione negli anni ‘70-‘80 anche in Europa.
Altri contributi importanti arrivano da Jerome Bruner con il suo approccio dell’apprendimento come scoperta e come risposta autonoma di problem solving, e da Carl Rogers, esponente della psicologia umanistica e sostenitore del concetto del formatore come “facilitatore d’apprendimento”.
Infine, bisogna ricordare David Kolb, l’autore più seguito nel campo della formazione degli adulti, che ha sistematizzato gli studi e le ricerche sull’”Experiential Learning”; secondo lui il processo di apprendimento dura tutta la vita (lifelong learning), ogni occasione è buona per apprendere ed è proprio attraverso l’esperienza pratica che avviene il nostro sviluppo e la nostra crescita. Tale processo viene concepito come una spirale che non ha mai termine, ogni suo ciclo attraversa quattro stadi:
- Esperienza Concreta (EC), coinvolgersi pienamente, apertamente e senza deviazioni in esperienze nuove;
- Osservazione Riflessiva (OR), riflettere su queste esperienze ed osservarle da molte prospettive;
- Concettualizzazione Astratta (CA), creare concetti che integrino le osservazioni in teorie logicamente valide;
- Sperimentazione Attiva (SA), usare queste teorie per prendere decisioni e risolvere problemi.