La solitudine è un vissuto naturale nell’esperienza umana. Può essere fonte di benessere o sofferenza, dipende dal contesto e dal patrimonio di esperienze soggettive.
Restare con se stessi può essere un piacevole rifugio e un momento di attenzione al proprio intimo o, al contrario, connotare uno stato negativo di disperazione. Ciò quando richiama vissuti di abbandono ed esclusione.
Chi si è sentito solo durante la pandemia da Coronavirus?
Un nuovo studio, ora pubblicato sulla rivista scientifica Personality and Individual Differences, ha fatto un passo importante verso una migliore comprensione delle differenze individuali nella solitudine.
Lo studio ha analizzato il più grande gruppo di volontari che sia mai stato studiato sul tema (oltre 46.000 volontari di età compresa tra 16 e 99 anni, provenienti da 237 paesi diversi) e ha evidenziato tre fattori importanti.
- L’età influisce sulla solitudine: diversamente da ciò che generalmente si pensa, le persone anziane hanno chiaramente riferito una solitudine meno frequente rispetto ai giovani.
- Il genere influisce sulla solitudine: gli uomini hanno riportato una solitudine più frequente rispetto alle donne.
- La società influenza la solitudine: le persone che vivevano in società individualiste (come gli Stati Uniti), in cui il successo individuale è un importante obiettivo di vita, riferivano una solitudine più frequente. Ciò rispetto alle persone che vivono in società più collettiviste (come il Guatemala), in cui i bisogni e gli obiettivi di un gruppo più ampio come la famiglia sono più importanti del successo individuale.
Differenze individuali nell’affrontare la solitudine
Al di là dei tre fattori evidenziati dallo studio sopra citato, abbiamo potuto vedere come in questi mesi le risposte individuali alle misure di contenimento e prevenzione imposte per arginare la pandemia siano state molto diverse.
Per alcune persone la solitudine è diventata una profonda angoscia, altre sembrano aver affrontato molto bene il crescente isolamento sociale.
Sicuramente ha sofferto di più chi ha nella sua storia psicologica ed affettiva esperienze di solitudine e traumi relazionali non risolti. In queste situazioni l’isolamento può diventare un vero e proprio stimolo scatenante la sofferenza. Può inoltre togliere le abituali risorse e strategie di fronteggiamento dello stress.
C’è chi ha trovato un’area di comfort nell’isolamento, che ha “autorizzato” o addirittura imposto di evitare situazioni “difficili”, ma portando poi ad una crescente difficoltà a “uscire fuori dal nido” e riesporsi alle richieste della vita normale.
E c’è chi è rimasto stupito della propria capacità di affrontare invece una situazione così difficile e ha magari avuto prova dell’efficacia di percorsi di cura e cambiamento fatti.
Di sicuro la solitudine è una condizione innaturale se diviene uno stato cronico e in tale condizione può portare a stati di disagio psicologico. Con sintomi di tipo depressivo, ansioso fino al panico e al disturbo post-traumatico da stress.
Questo perché la nostra mente si è sviluppata nel corso dell’evoluzione per essere relazionale (Siegel, 2013). Il nostro cervello ha bisogno della relazione con l’altro per crescere e apprendere, costruire significati su di sé e sul mondo, per regolarsi e trovare benessere.
La teoria polivagale
Creare legami è un imperativo biologico per l’uomo
Dopo 40 anni di studi e ricerche, Stephen Porges ha portato con la sua Teoria Polivagale (Porges,2014) preziosissime informazioni riguardo il funzionamento del nostro sistema nervoso autonomo. Ha spiegato in modo più esaustivo quali sono le basi anatomiche e funzionali dei modi in cui cerchiamo adattamento e sicurezza nel mondo e le diverse reazioni dell’uomo alle situazioni di pericolo.
Il punto centrale è che i mammiferi hanno bisogno per sopravvivere di instaurare relazioni sociali e il sistema nervoso nell’uomo si è sviluppato secondo tre principi fondamentali: neurocezione, gerarchia e co-regolazione.
Neurocezione
È quel processo attraverso il quale il nostro sistema nervoso rileva in ogni momento della nostra vita gli indizi di sicurezza, pericolo e minaccia provenienti dal nostro corpo, dall’ambiente circostante e dalle nostre connessioni con gli altri.
Si tratta di un processo continuo e automatico che opera al di fuori della nostra consapevolezza e non coinvolge le parti pensanti del nostro cervello.
Quando viene rilevato un pericolo, il nostro sistema nervoso autonomo attiva in modo automatico le risposte difensive seguendo tre livelli organizzati in modo gerarchico.
Ordine gerarchico
Il sistema nervoso autonomo risponde a sensazioni corporee e segnali provenienti dall’ambiente in modo automatico attraverso tre percorsi di risposta. Questi percorsi funzionano secondo uno specifico ordine gerarchico e rispondono alle diverse sfide in modi prevedibili.
In ordine evolutivo dal più antico al più moderno sono:
- Il Sistema Parasimpatico che coinvolge la parte dorsale del nervo vago. È la parte più antica del sistema nervoso autonomo e risponde ai segnali di pericolo estremo. Quando non siamo in grado né di lottare né di fuggire di fronte al pericolo rilevato porta una risposta analgesica. Ci spinge ad allontanarci dalla consapevolezza e dalle connessioni verso uno stato protettivo di collasso. Ci fa sentire immobilizzati e intorpiditi, non presenti. È quella reazione difensiva che abbiamo ereditato e che abbiamo ancora in comune con i rettili.
- Il Sistema Simpatico si è sviluppato immediatamente dopo il tratto dorso vagale ed ha introdotto la possibilità di agire. Risponde infatti ai segnali di pericolo alimentando la reazione di attacco-fuga, quindi la mobilizzazione di energia attraverso tutta una serie di modificazioni fisiologiche di iperarousal tra cui il rilascio di adrenalina.
- Il Sistema Parasimpatico che coinvolge la parte ventrale del nervo vago. È la parte che evolutivamente si è formata per ultima, è mielinizzata e tipica dei mammiferi. Regola l’attività degli organi che si trovano sopra il diaframma (polmoni, cuore) e guida i muscoli del volto, la faringe e determina la nostra capacità di esprimere le emozioni con il volto, la voce, la prosodia. In condizioni di pericolo il circuito ventrovagale promuove comportamenti di ingaggio sociale ed ha un effetto calmante. Permette di mandare “inviti” ad entrare in connessione con noi, cerchiamo e offriamo conforto. Risponde ai segnali di sicurezza e favorisce la sensazione di avere un ingaggio e delle connessioni sociali sicure.
Il superamento del paradigma classico
L’individuazione di questi tre percorsi ha portato al superamento del paradigma classico, che vede invece il sistema nervoso autonomo come un’alternanza e bilanciamento tra sistema simpatico e sistema parasimpatico, quindi tra iper-reazione (attacco/fuga) e rilassamento/ recupero dell’omeostasi.
In realtà le risposte del nostro sistema nervoso sono organizzate in modo gerarchico. Questo significa che utilizziamo dapprima le risposte adattive che vengono dai gradini più recenti della nostra evoluzione (via ventrovagale). Quando queste non funzionano per metterci al sicuro, utilizza via via le risposte più primitive, seguendo a ritroso la storia evolutiva della nostra specie (sistema simpatico e via dorsovagale).
Co-regolazione: la ricerca di sicurezza nell’altro
Quindi l’iper-reattività non è l’unico modo di cui disponiamo per difenderci. In caso di percezione di una minaccia, la prima cosa che facciamo è cercare sicurezza nell’altro.
Stare insieme (l’ingaggio sociale) è diventato per noi essenziale alla sopravvivenza. È attraverso la regolazione reciproca dei nostri sistemi nervosi (attraverso la neurocezione e il sistema vago ventrale) che creiamo relazioni di fiducia e ci sentiamo al sicuro.
La reciprocità è connessione tra persone, ci nutre e ci rafforza. È dare e ricevere; ascoltare e rispondere. È riparare le rotture, sentire sintonia, risonanza. È aver cura e prendersi cura.
Quindi nel corso dell’evoluzione abbiamo imparato che oltre alla fuga poteva esserci d’aiuto la protezione degli altri esseri umani e questo ha portato a raffinare le nostre capacità di sintonizzarci e ricercare relazioni collaborative.
Un individuo in interazione sociale può stabilizzare la sua condizione neurofisiologica: se l’ambiente viene percepito come sicuro le risposte di difesa vengono inibite e la condizione di sicurezza che deriva dalla relazione si riflette nelle sensazioni viscerali.
Il circuito ventrovagale ci permette, quando siamo in condizione di sicurezza, di promuovere altra sicurezza. Noi intercettiamo questi segnali attraverso l’interazione sociale, decodificando in modo istintivo messaggi che derivano dal contatto oculare e dalla voce. Inviando segnali di risposta, entrando in relazione e promuovendo l’autoregolazione delle sensazioni fisiologiche.
Le implicazioni per la psicoterapia
La teoria polivagale ha rivoluzionato il nostro criterio di osservazione delle reazioni fisiologiche di sopravvivenza a fronte di situazioni percepite come pericolose. Ha fornito un fondamentale modello di comprensione su ciò che accade dal punto di vista neuraoanatomico quando un individuo sperimenta un trauma persistente all’interno delle proprie relazioni di attaccamento.
Seppur programmati per vivere in connessione l’uno con l’altro, gli esseri umani sono allo stesso tempo programmati per sopravvivere. Il trauma relazionale rende la co-regolazione pericolosa. Quando entrare in connessione non è più percepito come sicuro, il nostro sistema autonomo ci allontana dagli scambi sociali, o li rende conflittuali, proprio in funzione della nostra continua ricerca di sicurezza.
Questa teoria può aiutare i terapeuti a meglio comprendere i comportamenti e le reazioni dei propri pazienti, aiutando a considerare le ragioni alla base radicate in una storia di “sopravvivenza” alle quali si giunge in maniera automatica.
Aiuta i terapeuti ad aiutare i propri pazienti a comprendere le intenzioni protettive delle loro risposte autonomiche, aiutando a superare vissuti di vergogna e autocolpevolizzazione tipici di chi è sopravvissuto ad un trauma. Ed aiuta i terapeuti a creare le condizioni per la presenza nel setting terapeutico di uno stato fisiologico che supporti un sistema di ingaggio sociale attivo e quello stato di sicurezza con l’altro assolutamente necessario per un buon lavoro terapeutico.
Il protrarsi del distanziamento dagli altri
La solitudine porta un persistente messaggio di instabilità e il nostro sistema nervoso rimane sollecitato in modalità di ricerca di sopravvivenza. In una condizione di stress, diventando un fattore di rischio fisico ed emotivo.
Forse essere consapevoli che il proprio isolamento o il rispetto della distanza serve a tutti può aiutare a renderlo più sopportabile. Sapere di offrire aiuto agli altri infatti contribuisce a farci sentire ancora interconnessi e quindi più al sicuro.
Bibliografia
- Manuela Barreto, Christina Victor, Claudia Hammond, Alice Eccles, Matt T. Richins, Pamela Qualter. Loneliness around the world: Age, gender, and cultural differences in loneliness. Personality and Individual Differences, 2020, in press.
- Deb Dana “La Teoria Polivagale nella Terapia.Prendere parte al ritmo della regolazione”. Giovanni Fioriti Ed. 2019
- Daniel J. Siegel “La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale”. Raffaello Cortina Ed. 2013
- Stephen W. Porges “La teoria polivagale. Fondamenti neurofisiologici delle emozioni, dell’attaccamento, della comunicazione e dell’autoregolazione”. Giovanni Fioriti Ed. 2014