Per molto tempo si è ritenuto che il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) fosse un disturbo basato sulla paura (Foa, Hembree & Rothbaum, 2007; Foa & Kozak, 1986). Anche da un punto di vista di inquadramento diagnostico il PTSD era classificato all’interno dei disturbi d’ansia fino all’emergere del DSM-5 (APA, 2013), che lo ha inserito all’interno dei disturbi correlati a eventi traumatici e stressanti.
Sebbene la paura sia una risposta emotiva al trauma, è stato suggerito che anche altre emozioni, come la vergogna, possano contribuire al disturbo da stress post-traumatico (López-Castro, Saraiya, Zumberg-Smith & Dambreville, 2019).
Negli ultimi anni si è assistito a un crescente interesse per l’emozione di vergogna come conseguenza del trauma emotivo (Saraiya & Lopez-Castro, 2016). Evidenze scientifiche indicano un’associazione moderata e significativa tra la vergogna e la gravità dei sintomi di disturbo da stress post-traumatico (Lopez-Castro et al., 2019) e suggeriscono che la vergogna sia predittiva di livelli più elevati di sintomi da stress post-traumatico fino a sei mesi dopo il trauma (Andrews, Brewin, Rose & Kirk, 2000; Beck, McNiff, Clapp, Olsen, Avery & Hagewood, 2011).
Il modello cognitivo
Il modello cognitivo del PTSD offre una cornice per comprendere come la vergogna può emergere in conseguenza di un’esposizione a un evento potenzialmente traumatico (Elwood, Hahn, Olatunji & Williams, 2009).
In particolare la vergogna potrebbe essere il risultato di un processo cognitivo in cui l’evento elicitante è ricondotto ad attribuzioni interne, stabili e globali e livelli più elevati di attribuzioni interne, stabili e globali sono stati associati con livelli più elevati di disturbo da stress post-traumatico (Seah & Berle, 2022).
In seguito dunque a un evento traumatico, la vergogna può emergere proprio attraverso un processo di valutazione in base al quale l’individuo erroneamente biasima sé stesso sentendosi responsabile dell’evento, come se quell’evento fosse stato causato dalla sua inadeguatezza o dal suo essere privo di valore.
Sebbene si ritenga che le attribuzioni negative siano un antecedente cognitivo della vergogna ci sono caratteristiche del trauma che possono giocare un ruolo sulla tipologia delle emozioni post-traumatiche. Pensiamo, per esempio, alla natura dell’evento.
Il trauma relazionale
Gli individui esposti a trauma relazionale (vale a dire a quelle esperienze traumatiche in cui una persona agisce deliberatamente un danno su un’altra, come ad esempio la violenza fisica, sessuale) hanno riportato la vergogna come risposta emotiva dominante (La Bash & Papa, 2014). Dunque quando una persona subisce un trauma di naturale interpersonale ha una maggiore tendenza ad avere attribuzioni negative stabili e globali e di conseguenza più elevati livelli di vergogna.
Il trauma di natura interpersonale mina la fiducia nelle persone proprio perché l’evento traumatico è stato causato da un conspecifico. Impatta potentemente sul proprio senso del sé, sul senso delle relazioni e sul senso di sicurezza nel mondo.
Ciò che alimenta l’angoscia nei casi di violenza interpersonale da parte di una persona vicina è il senso di tradimento (Freyd, 1996). Tanto più la relazione è stretta e di fiducia, tanto maggiore è il senso di tradimento e i traumi da tradimento sono stati associati a maggiore vergogna e dissociazione (tra gli altri, Platt & Freyd, 2015).
Laddove invece il trauma non è di natura interpersonale, come i disastri naturali (terremoto, alluvioni), tendiamo a sviluppare prevalentemente la paura come segnale di allarme. Quando invece sono le persone a farci del male, la vergogna è il sistema di allarme più appropriato.
Vergogna ed esperienze traumatiche precoci ripetute
La vergogna è un’emozione relazionale e per questo le ferite interpersonali rappresentano un fattore significativo nello sviluppo della vergogna (Benau, 2022; Epstein, 2021).
Gran parte della letteratura attuale sulle radici della vergogna focalizza l’attenzione sulle precoci esperienze traumatiche di natura relazionale, vale a dire sulle esperienze nelle quali i caregiver non sono stati capaci di rispondere ai principali bisogni di sviluppo emotivo, psicologico e fisico del bambino.
La prima cosa di cui un bambino necessita quando viene al mondo è sentirsi in relazione con qualcuno, sentirsi vicino a un adulto che si prenda cura di lui. Sentirsi al sicuro, protetto, amato, accudito, confortato, compreso da un altro significativo.
Laddove le figure di attaccamento sono in grado di sintonizzarsi con questi bisogni primari si svilupperanno connessioni neurali che supportano i sentimenti di amore e un senso di appartenenza. Qualora invece il bambino non vede i propri bisogni soddisfatti nella relazione con il caregiver si sentirà emotivamente abbandonato, rifiutato e tradito.
Ogni bambino cercherà di dare un senso e adattarsi al proprio mondo anche di fronte ad avversità significative e prolungate. Di conseguenza in questi sforzi per comprendere ed elaborare queste esperienze, la visione di sé stesso e degli altri può diventare sistematicamente distorta (Young, Klosko & Weishaar, 2003).
Nel cercare di attribuire un significato alla cronica mancanza di sintonizzazione emotiva da parte dei genitori e alla trascuratezza dei suoi bisogni, il bambino tenderà a biasimare sé stesso e a negare le proprie emozioni. Così facendo salvaguarderà il legame di attaccamento con i propri genitori al fine di continuare a sentirsi sicuro e protetto.
È molto più funzionale alla sopravvivenza del bambino, infatti, pensare di essere un bambino cattivo o sbagliato con genitori buoni, piuttosto che il viceversa. L’autocritica genera quasi sollievo perché permette di avere un senso di padronanza e controllo: se infatti il problema è del bambino questi ha una maggiore libertà d’azione.
Incolpare noi stessi ci dà più potere che riconoscere che le persone da cui dipendiamo per la sopravvivenza non sono sicure. Laddove dunque sono io quello cattivo e sbagliato posso cambiare il comportamento e così conservo la speranza che le cose possano andare diversamente. Il viceversa sarebbe molto più impattante per il bambino.
Come si sviluppa e si alimenta la vergogna
È indubbio però che questo meccanismo, che nasce allo scopo di difendere e proteggere il bambino dall’impatto traumatico dell’invalidazione e della trascuratezza genitoriale, alimenta la sua vergogna tossica, diventando disfunzionale. La rappresentazione negativa incarnata di sé come cattivo, che non merita cose buone perché intrinsecamente sbagliato e in difetto, infatti, persiste nell’età adulta interferendo potentemente nelle relazioni significative.
La cronica mancanza di sintonizzazione emotiva da parte dei genitori con il mondo interiore del bambino e la trascuratezza dei suoi bisogni generano dunque una vergogna interiorizzata (Schore, 1998).
Un tema ricorrente nei soggetti che da adulti mostrano vergogna è il disinteresse percepito nei confronti di sé stessi da parte di almeno un genitore. L’esperienza di un genitore freddo, non affettuoso, privo di capacità emotiva è descritta come sufficiente a sviluppare un sé vergognoso (Benau, 2022).
Oltre alla trascuratezza dei bisogni anche esperienze di violenza fisica e sessuale possono essere tali da generare una vergogna interiorizzata.
Un altro scenario di sviluppo della vergogna è quando il caregiver non solo non accudisce ma di fronte alla richiesta di accudimento da parte del bambino mostra comportamenti di derisione, umiliazione e disprezzo.
In questi casi il bambino diventa ipersensibile alla vergogna e si sente non amabile, inadeguato, sbagliato. Si aspetta previsionalmente disapprovazione, umiliazione e critica ogni qualvolta mostra il proprio bisogno o la propria vulnerabilità.
Il genitore infatti, in questo caso, invece di dare conforto per aiutare il bambino a raggiungere lo stato di calma, respinge il bambino insultandolo e svalutando di fatto la sua richiesta di aiuto.
Di conseguenza i bambini tendono ad attribuire un significato negativo ai bisogni di attaccamento e apprendono che le emozioni legate alla vulnerabilità non devono essere provate.
Lo sviluppo in età meno precoce
Abbiamo visto sopra che la vergogna possa emergere sin dai primi anni di vita a causa della mancata connessione dei caregiver con i bisogni di amore e comprensione del bambino.
Questa però può svilupparsi nella relazione con la figura d’attaccamento anche in un’età che ha a che vedere con la volontà, con l’affermazione di sé rispetto ai compiti evolutivi del bambino.
Ogni volta infatti che ci sono tentativi del bambino di affermare sé stesso, e questi vengono negati dal genitore, il bambino potrebbe attribuire la reazione del genitore al proprio senso di indegnità.
Per esempio, il bambino che si allontana dal caregiver per esplorare il mondo che lo circonda quando ritorna dalla madre si aspetta di essere accolto da lei con gioia.
Potrebbe invece fare esperienza di una risposta genitoriale preoccupata o disinteressata. Ecco che questa esperienza potrebbe generare vergogna (Schore, 1998).
Il bambino infatti sta sviluppando il proprio sé e in conseguenza della reazione del genitore assumerà che la sua mancanza di gioia è dovuta a lui, non a ciò che questi sperimenta nel proprio mondo interno.
Se questo scenario è vissuto regolarmente dal bambino il bambino svilupperà una vergogna di tratto e così la vergogna diventerà parte della propria personalità (Epstein, 2021).
Conseguenze profonde della vergogna
L’elemento più difficile e disturbante dell’emozione di vergogna è che va a toccare proprio il senso di identità, quel non andare bene, quel sentirsi profondamente sbagliati che è vissuto come qualcosa di incarnato.
Piuttosto che provare vergogna per qualcosa che si è fatto attribuiamo la vergogna a chi siamo. La persona si sente profondamente indegna (di amore), cattiva, sbagliata, non meritevole di cose buone (Lewis, 1995; Tangney & Dearing, 2002).
La vergogna include inadeguatezza, inferiorità, delusione, come qualcosa di identitario afferente a ciò che si è.
Essendo la vergogna un’emozione sociale, fornisce all’individuo il segnale che gli altri potrebbero rifiutarci, danneggiarci o umiliarci se noi volessimo mostrarci pienamente.
La vergogna è un’esperienza emotiva così dolorosa che si accompagna a ritiro, evitamento e più in generale al desiderio di nascondere i propri difetti percepiti a causa del giudizio degli altri e dalla minaccia di essere smascherati (Gilbert, 2000).
Per questo l’emozione di vergogna può avere un impatto negativo sul funzionamento interpersonale.
La vergogna come ‘eroe’ della storia personale
È vero che la vergogna è un’emozione dolorosa che genera sofferenza. Del resto però la vergogna, come l’ansia, funziona come un segnale di pericolo e nel caso della vergogna il pericolo è di natura interpersonale o sociale.
Rappresenta un segnale che ci mette in guardia dal rischio di venire rifiutati o umiliati, o anche abusati.
La vergogna è ciò che ha aiutato la persona a sopravvivere. Quando si prova vergogna infatti non si riesce più a parlare, c’è la tendenza a distogliere lo sguardo dal proprio interlocutore, si avverte la spinta a scomparire, a rimpicciolirsi. Questo potrebbe aver rappresentato un modo per sopravvivere a un contesto famigliare disfunzionale permettendo al bambino di garantirsi una maggiore sicurezza.
La vergogna dunque è un potente regolatore emotivo che funziona efficacemente per inibire l’azione e per guidare la risposta di sopravvivenza di sottomissione.
Scopi della vergogna
Per Allan Schore (2008) la vergogna ha lo scopo neurobiologico di tenere al sicuro i bambini. La vergogna infatti riduce l’autoesplorazione e quando l’ambiente non è sicuro, come nelle famiglie abusanti, ridurre l’autoesplorazione rappresenta un contributo importante alla sopravvivenza.
La vergogna dunque è un sistema di frenaggio efficace: il corpo comincia a dipendere dalle risposte di vergogna al fine di mantenere il bambino più sicuro possibile in quelle situazioni aiutandolo così a conformarsi alle aspettative dei genitori, per quanto esse siano irragionevoli e abusanti.
La visione negativa di questa emozione
Ciononostante le persone che sperimentano vergogna tendono a etichettare la vergogna come un segno di debolezza, una prova inconfutabile che c’è qualcosa di sbagliato in loro. Difficilmente invece tendono a pensare alla vergogna come una strategia difensiva attiva.
Laddove infatti la vergogna si è accompagnata a un comportamento remissivo e accomodante, costituisce una strategia di limitazione del danno e viene adottata quando continuare in modo non remissivo potrebbe accompagnarsi a una minaccia interpersonale, in termini di rifiuti, umiliazioni o conflitti.
Per un bambino tutto questo sarebbe davvero troppo pericoloso. Mediante la vergogna dunque è come se il bambino ritenesse non sicuro lottare contro un proprio genitore e quindi in automatico ha scelto la cosa migliore.
In virtù di ciò possiamo definire la vergogna come l’eroe della storia personale: rappresenta in altri termini quel piano alternativo di sicurezza finalizzato a compensare la mancanza di sintonizzazione emotiva da parte dei genitori e assicurare al bambino di rimanere in connessione con loro (Solomon, 2021).
Pensare alla vergogna come un’emozione salvifica permette di trasformare e riorganizzare la relazione con la vergogna e muovere un po’ di rispetto e amore per la parte del sé che ha provato e continua ancora oggi a provare vergogna.
Vergogna e trauma relazionale singolo
Se esperienze ripetute di traumatizzazione precoce nella relazione con i caregiver possono portare a sentimenti di vergogna in età adulta che interferiscono nel funzionamento interpersonale, l’emozione di vergogna può essere esperita anche nel caso di traumi relazionali singoli.
Il lutto
Si può provare ad esempio vergogna in caso di lutto. Nel lutto infatti si perdono delle persone care e quindi subiamo una menomazione a livello sociale con conseguente rischio di emarginazione.
Il bambino che perde un genitore si trova con una figura di attaccamento in meno e può provare vergogna del fatto che tutti i compagni hanno due genitori, mentre lui no. Ci si può sentire dunque diversi, inferiori a coloro che non hanno vissuto il lutto.
Molto spesso in adolescenza si cerca di fuggire dalla vergogna, da una immagine di sé umiliata, agendo la collera da sfida. Posso sentirmi superiore, posso mostrare una rabbia agonistica e in tal caso la collera diventa un modo di nascondere i vissuti dolorosi legati al ricordo traumatico e ci fa sentire attivi generando sensazioni piacevoli di potenza.
La denigrazione e l’abuso
La vergogna può inoltre emergere dall’essere stati usati in modo inaccettabile e degradante. Pensiamo per esempio ai casi di abuso sessuale.
L’emozione di vergogna in queste situazioni traumatiche può aumentare nei casi in cui la vittima ha provato eccitazione fisica durante l’abuso. Provare eccitazione fisica, talvolta fino anche all’orgasmo, nel momento in cui si è abusati sessualmente genera profonda vergogna.
Eppure si tratta di una fisiologica risposta sessuale per cui il corpo risponde, oltre al fatto che la lubrificazione vaginale può essere protettiva allo scopo di non subire lesioni gravi. Ciononostante le reazioni del corpo possono essere mal interpretate e generare disgusto e vergogna.
La violenza
La vergogna infine può emergere anche quando un trauma relazionale (per esempio, una violenza) ci immobilizza. Sebbene l’immobilizzazione rappresenti una risposta di sopravvivenza rispetto all’evento, il senso di impotenza e di blocco sperimentato può elicitare emozioni di vergogna, come se non fosse stata la reazione giusta.
Capita molto spesso che la persona si biasimi per non aver reagito, per non essere riuscita a fare niente, non tenendo conto delle conseguenze che ci sarebbero potute essere per lei nel caso in cui non si fosse sottomessa.
Come ridurre la vergogna
La maggior parte delle persone tende a sviluppare strategie come protezione da un’emozione, la vergogna, che può essere sentita come ‘troppo’.
Sebbene si tratti di strategie che possono contribuire al mantenimento della vergogna, e dunque a interferire nel funzionamento individuale e sociale della persona, è importante essere curiosi di comprenderne la funzione.
Solo in un secondo tempo possiamo trasformare quelle strategie in un qualcosa di adattivo. Ogni cosa infatti prima di essere trasformata va onorata e dunque può essere importante accomiatarsi dalla vergogna riconoscendone innanzitutto il ruolo fondamentale per la sopravvivenza.
Le esperienze traumatiche possono portare a una relazione interna negativa con sé stessi, dominata dalla vergogna e dall’autocritica. Il modo migliore per superare l’autobiasimo, il disprezzo di sé e la natura complessa della vergogna è la compassione.
Attivare la compassione significa sviluppare un atteggiamento non giudicante, saggio, comprensivo, empatico che permetta di guardare alla nostra sofferenza e alle nostre esperienze critiche con forza e coraggio.
La Compassion Focused Therapy
Paul Gilbert ha sviluppato la Terapia Focalizzata sulla Compassione (CFT) proprio per lavorare con la vergogna e con storie di attaccamento difficili (Gilbert, 2009; Irons & Lad, 2017).
La premessa della CFT, che è influenzata dalla psicologia evoluzionistica, è quella di aiutare le persone a porre fine all’autocritica impegnandosi in un atteggiamento compassionevole nella relazione con sé stessi.
L’autocompassione è un potente antidoto contro l’autocritica e la vergogna: si riferisce proprio alla capacità di vedere sé stessi come degni di amore e attenzione e come connessi all’umanità quando sperimentiamo angoscia.
Judith Herman, pioniera della ricerca e della terapia sul trauma, riassume il lavoro di recupero dal trauma nei termini di “il superamento delle barriere alla vergogna e alla segretezza, il rendere sopportabili sentimenti intollerabili attraverso la connessione con gli altri, il lutto per il passato e il raggiungimento di una nuova prospettiva con uno sguardo più compassionevole” (Herman, 2015, p. 276). Pone così l’autocompassione al centro del recupero dal trauma
Provare compassione per noi stessi, per i bambini che siamo stati, per l’infanzia negata, per le rotture relazionali diventa cruciale.
Ostacoli alla compassione per se stessi
Del resto però un atteggiamento compassionevole nei confronti di noi stessi può essere proprio ostacolato dalle esperienze di traumatizzazione precoce.
Il nostro stile di attaccamento è modellato in base alle esperienze che abbiamo vissuto su come i nostri caregiver ci hanno risposto quando eravamo in difficoltà.
Di conseguenza le nostre reazioni alla compassione e i nostri ostacoli allo sviluppo di un atteggiamento compassionevole con noi stessi varieranno in funzione delle nostre esperienze precoci di attaccamento.
Se infatti abbiamo fatto esperienza di trascuratezza o abbiamo subito una qualche forma di abuso emotivo o fisico in situazioni in cui avevamo bisogno di conforto e di vicinanza del caregiver, avremo dei ricordi emotivi che collegano l’esperienza del bisogno o del ricevere cure con emozioni negative di vergogna, rabbia, solitudine, paura, disperazione, impotenza, disgusto, così come avremo il ricordo vivido di questi eventi traumatici.
In virtù di ciò la nostra capacità di provare emozioni come l’amore, la compassione, il desiderio di vicinanza con gli altri e con noi stessi possono quindi essere gravemente compromessi.
La terapia EMDR
Ecco che l’approccio di psicoterapia EMDR (Shapiro, 1995) potrebbe rappresentare un valido strumento finalizzato a rielaborare e riprocessare quelle esperienze di traumatizzazione precoce.
Un approccio EMDR focalizzato sulla compassione (CF-EMDR; Kennedy, 2014; Verardo & Lauretti, 2020) potrebbe permettere di coniugare entrambi gli approcci e rivelarsi un modello di intervento.
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