Fra i molti quadri clinici che esistono nei manuali psichiatrici quello dei Disturbi del Comportamento Alimentare – DCA o più semplicemente dei Disturbi Alimentari (DA) è di sicuro uno di quelli che ha un più forte impatto emotivo nella mente degli esseri umani.
Questo è facilmente spiegabile anche solo concentrandoci sul fatto che rispetto ad altri quadri psichiatrici questo ha un impatto franco sul corpo e può arrivare anche in breve tempo a mettere a rischio la vita di un essere umano. Se a queste considerazioni aggiungiamo che sempre più spesso l’esordio di questi quadri clinici si sposta dall’età adulta alla prima adolescenza, l’impatto emotivo diventa gigantesco.
L’immagine di un ragazzo (o una ragazza) che inizia ad avere regole alimentari rigide, comportamenti alimentari disfunzionali fino anche a smettere del tutto di alimentarsi per lunghi periodi di tempo è un’immagine che ci fa stare in contatto con tantissime emozioni.
Questa premessa serve solo a farci anche solo lontanamente avvicinare a comprendere e a sintonizzarci su cosa può succedere nella mente di un genitore che vede il proprio figlio iniziare ad avere i sintomi fino ad arrivare ad una vera e propria diagnosi di disturbo alimentare.
Trattamento dei disturbi alimentari e coinvolgimento dei genitori
Negli anni si è molto studiato il ruolo della famiglia in psicopatologia, sia da un punto di vista di comprensione del suo ruolo all’interno del quadro clinico, sia come parte da coinvolgere nel processo di intervento in termini di sostegno.
Sono inoltre nati veri e propri programmi di “Parent Training” volti ad assistere i genitori di pazienti con disturbi psichiatrici: dare ai genitori le competenze necessarie per assistere il figlio ha sia lo scopo di migliorare la rete di supporto del figlio malato sia quella di aiutare i genitori in un momento per loro terribilmente difficile.
Sebbene sia quindi indiscussa l’importanza della presa in carico della famiglia nel suo insieme e quindi dei genitori nel percorso terapeutico di un ragazzo con un DA, questo fattore viene spesso sottovalutato e talvolta addirittura escluso, anche dai contesti di cura.
Inoltre, alcuni tra i programmi che sono ad oggi considerati il gold standard per la cura di adolescenti con DA, in primis il Maudsley Approach, rimangono fedeli ai modelli di terapia familiare e non sempre tengono il focus sulla mente del genitore. Questi rimane un aiutante prezioso e un attore impegnato in prima linea, con un ruolo indispensabile nelle cure del figlio ma perde spesso il ruolo importante di paziente stesso.
Ma che succede nella mente di una madre o di un padre quando il figlio smette di mangiare? È sempre più chiaro che affinché i familiari possano diventare dei co-terapeuti nell’intervento del figlio dobbiamo prenderci cura anche di loro e della loro sofferenza.
Sia la ricerca sia la pratica clinica, in sintesi, sono arrivati a sottolineare l’importanza di aiutare la famiglia a ridurre il carico di stress, migliorando le strategie comunicative e facendola sentire meno isolata e più supportata.
Nella mente dei genitori: elementi e strategie
Vediamo insieme quali sono gli ingredienti che dobbiamo tenere a mente quando vogliamo gestire meglio la relazione con un figlio con un problema alimentare.
Comprendere il proprio figlio e differenziare i suoi comportamenti
Comprendere quali comportamenti del proprio figlio sono legati alla malattia e quali invece riguardano il suo modo più tipico di funzionare è fondamentale: un adolescente rimane un adolescente, ha il suo bisogno di ribellione, di contrasto, di identificazione.
La condizione di malattia non è in questo senso identitaria. Un disturbo diventa in questo senso un “passeggero” a bordo dell’essere umano: coglierne le differenze può davvero essere fondamentale per rimanere in relazione con lui.
Questo può aiutare in primis a mantenersi sintonizzati con il proprio figlio, a riconoscerlo (anche nelle manifestazioni più faticose), a restare ancorati all’idea che è ancora lì, davanti ai miei occhi.
Inoltre diventa possibile adottare strategie diverse, specializzate più mirate quando invece mi rendo conto che il comportamento che sta mettendo in atto mio figlio è una delle conseguenze della malattia.
Comprendere sé stessi: monitorare le proprie emozioni e le proprie azioni
È altrettanto indispensabile imparare a riconoscere cosa si attiva in noi davanti al comportamento di nostro figlio. Diventare degli esploratori di noi stessi, capire di fronte a cosa mi arrabbio, di fronte a cosa mi impaurisco. Tracciare una vera e propria analisi di noi stessi ci rende più consapevoli e quindi capaci di direzionare in modo più utile le nostre risorse.
In ottica cognitivo-comportamentale (CBT) ogni azione è il frutto di un pensiero e di un’attivazione emotiva: se per esempio trovo mia figlia si rifiuta di mangiare io posso pensare “aiuto, è in pericolo” e quindi provare paura e fare di tutto per farla mangiare. Ma posso anche pensare “non la posso aiutare” e sentire impotenza e dolore e rimanere paralizzato. O posso pensare “ma com’è possibile! Perché fa cosi? Cosa cavolo le passa per la testa?!” e sentire più la rabbia che mi invade avendo la tentazione di urlarle contro e spronarla con forza a ritornare in sé.
Ma quanto è difficile non andare in automatico? Quanto è tipico accorgersi di come abbiamo reagito solo a posteriori? E quanto spesso siamo inconsapevoli di quello che ci succede e sentiamo solo “un gran caos” o “un gran dolore”?
Imparare a monitorare noi stessi e comprendere come ci fanno sentire le cose che viviamo renderebbe più centrata la vita di ognuno di noi, ma diventa indispensabile in situazioni in cui quello che facciamo e come reagiamo rischia di non funzionare e abbiamo la sensazione di “peggiorare le cose” o “non essere compresi nei nostri intenti”.
Comprendere la relazione: leggere la relazione come un ciclo
Il terzo elemento importante da avere in mente è proprio la relazione che c’è tra noi e nostro figlio.
Quello che abbiamo imparato a monitorare su di lui e quello di cui siamo più consapevoli rispetto al nostro mondo interno ci danno un’immagine diversa anche della relazione.
Questo ci porta a poter rispondere a tutta una serie di domande che ci aiutano a comprendere cosa sta succedendo tra noi.
- Cosa mi ha fatto attivare? (qual è l’elemento che mi ha fatto reagire in questo momento?)
- Cosa ho pensato?
- Cosa provo adesso?
- Che comportamenti ho messo in atto?
- Con quale scopo lo faccio?
- Come arriva questo a mio figlio?
- Come si sente adesso?
Queste e altre domande ci aiutano a dare un senso diverso allo spazio che intercorre tra noi e nostro figlio (lo spazio intersoggettivo); queste domande riempiono di significato la nostra interazione.
Fra queste domande quella che emerge tra tutte nella sua importanza riguarda il nostro scopo, la nostra motivazione.
Leggere le interazioni in base ai nostri scopi
Alla base delle nostre azioni esiste una spinta, un drive interno, più o meno consapevole, che ci permette di avviare, indirizzare e mantenere un comportamento.
Tale spinta è definita motivazione e alcuni autori hanno teorizzato la presenza di veri e propri sistemi motivazionali.
In base alla leva quindi, allo scopo con il quale entriamo in relazione con l’altro, attueremo un comportamento oppure un altro.
Di fronte ai sintomi di un disturbo così insidioso come quello alimentare i genitori possono ad esempio:
- mantenere lo scopo di accudire il proprio figlio: tenderanno magari a assecondare i comportamenti a rischio;
- sentire la spinta a proteggere loro stessi: avranno la spinta ad allontanarsi dalle situazioni problematiche, a prendere aria e ricaricarsi;
- sentire minacciato il proprio ruolo genitoriale: si sentiranno sfidati dal figlio, sentiranno che la situazione gli sta scivolando di mano e agiranno per tornare nel ruolo dominante.
In base allo scopo cambia la lettura dei comportamenti. Non c’è uno scenario sbagliato ed uno giusto ma se stiamo battendo in ritirata per prendere aria o sentiamo minacciato il nostro ruolo dobbiamo esserne consapevoli, altrimenti rischieremo di interpretare la risposta di nostro figlio in modo sbagliato.
La motivazione a cooperare: cambiare rotta e allearci con nostro figlio
Tra i sistemi motivazionali spicca tra tutti in questo contesto quello cooperativo. Sebbene come abbiamo detto ogni motivazione è valida e ha il suo senso nel contesto, è opportuno sottolineare che quando il genitore diventa di supporto alla terapia la sua motivazione verso i sintomi (e quindi non verso il figlio, ma verso il passeggero del figlio ovvero il disturbo alimentare) una delle motivazioni più funzionali ed efficaci è quella a collaborare.
Allearci con lui, chiedere la sua opinione, cercare di capire come si sente, raccontare cosa vediamo noi e quali sono i nostri consigli sono tutte azioni e atteggiamenti che ci aiutano nel nostro ruolo.
Anche per nostro figlio, che è già impegnato nella lotta interna contro il suo passeggero, è importante la relazione con noi: offrirgli la possibilità di leggere la nostra mente, fargli sentire che siamo parte del suo team di supporto e stare in contatto con la motivazione a collaborare sono elementi che la letteratura evidenzia come capaci di fare la differenza.
Rimane importante sottolineare che questi o altri strumenti vengono affrontati in programmi dedicati, come ad esempio quelli presenti negli interventi di Parent Training (sia individuali che in gruppo). Questi interventi vengono sempre più studiati e rinnovati e in un contesto come quello di una famiglia con un adolescente con un DA, immaginare un intervento specifico, tarato su quel contesto, è senza dubbio una delle forme di aiuto migliore.
Bibliografia
- Gatti, A., & Marchi, L. (2024). Parent training per adolescenti con disturbi dell’alimentazione. Materiale per il clinico e schede per i genitori. Erickson.
- Rienecke, M., et al. (2015). “The Impact of Adolescent Eating Disorders on Parents: A Review.” Eating Disorders, 23(3), 217-229;
- Treasure, J. (2021). Il nuovo metodo Maudsley. Come prendersi cura di una persona cara con disturbo dell’alimentazione. Hogrefe.
- Gowers, S. G., et al. (2007). “The Role of Parents in the Treatment of Adolescent Eating Disorders: A Review.” Clinical Child Psychology and Psychiatry, 12(2), 227-241;