Capita di incontrare in terapia persone che richiedono un aiuto per migliorare la loro condizione, le quali hanno provato da sole a risolvere i propri disagi. Ci hanno pensato, ma la conclusione è risultata: “non ce la posso fare, la mia condizione è questa, sono fatto così, devo solo imparare a conviverci, non posso farci niente, non ho speranza …”.
Molto spesso tali ragionamenti sono il frutto di una concezione strutturata nella loro mente conosciuta come learned helplessness (senso di impotenza appresa).
Cherry (2014), ha definito l’impotenza appresa (learned helplessness) come uno stato mentale in cui un essere vivente, dopo che è stato esposto a frequenti stimoli avversivi, ossia dolorosi o comunque spiacevoli, diventa incapace o riluttante a evitare il successivo incontro con questi stessi stimoli, anche se sono evitabili.
Ciò accade presumibilmente perché ha imparato che, nonostante i suoi sforzi, non può controllare la situazione. Se questa condizione di impotenza continua a verificarsi in più contesti o sfere di vita, il cervello può imparare (apprendere appunto) che in quella particolare situazione o evento non c’è niente che possiamo fare se non aspettarne l’esito in modo del tutto fatalistico.
Pertanto, quando ci si trova di fronte a situazioni o compiti simili in futuro, si può rinunciare a priori alla speranza di raggiungere il successo e dunque disinvestire sui tentativi di raggiungerlo.
Helplessness sta dunque ad indicare una condizione di estrema impotenza, la concezione che, a scapito di tutto ciò che si possa fare, la situazione non cambierà mai. Siamo in balia del destino, ci troviamo su una zattera e ciò che vediamo intorno è solo acqua a perdita d’occhio: non solo io non posso fare niente per evitare l’inevitabile, ma nessun’altro può farlo, il mio destino è segnato.
Learned (appresa) sta invece a significare che non è un tratto innato, ma che no stessi l’abbiamo strutturato e reso automatico. È un comportamento appreso, condizionato da esperienze in cui il soggetto non ha davvero alcun controllo sulle sue circostanze o semplicemente percepisce di non averne.
Tale condizione risulta infatti come conseguenza di eventi di vita spiacevoli e una tendenza automatica a interpretarli in modo fatalistico.
Il senso di impotenza: dagli animali …
L’impotenza appresa è un fenomeno che noi esseri umani condividiamo anche con altri animali: quando questi sono stati condizionati ad aspettarsi dolore, sofferenza o disagio senza un modo per sfuggirgli, dopo un sufficiente numero di esposizioni, smetteranno del tutto di evitare il dolore, anche se esiste un’opportunità di farlo.
Quando iniziano a credere di non avere alcun controllo su ciò che sta accadendo, cominciano a sentire e ad agire come se davvero fossero impotenti.
Tale fenomeno venne inizialmente studiato dallo psicologo Martin Seligman e dai suoi collaboratori intorno agli ’70. I loro esperimenti, all’epoca ancora ritenuti sufficientemente etici, ad oggi avrebbero sollevato indubbiamente grande indignazione.
Infatti, per simulare eventi di vita stressanti e incontrollabili, i due studiosi utilizzarono leggere scosse elettriche che applicarono ad animali come cani e ratti (Seligman & Groves, 1970; Seligman & Beagley, 1975).
Lo scopo degli esperimenti era quello di osservare se ci fossero differenze nei comportamenti in due gruppi di animali sottoposti a differenti esperienze. Un gruppo al quale non era stata data alcuna possibilità di evitare gli stimoli avversi, l’altro invece con tale possibilità.
Nell’ultima condizione sperimentale, a entrambi i gruppi di animali veniva data la possibilità di agire per evitare le scosse elettriche: coloro che avevano già avuto tale possibilità l’avevano colta immediatamente, coloro i quali invece nella prima condizione avevano imparato che nonostante i loro sforzi le stimolazioni dolorose sarebbero continuate, non mettevano in atto alcun comportamento di fuga o reazione, ma rimanevano impotenti a subire gli eventi.
… all’uomo
Vennero effettuati studi simili anche sugli esseri umani, sostituendo, fortunatamente per loro, le scosse elettriche con un suono forte e fastidioso. L’effetto risultò esattamente lo stesso.
A seguito di tali osservazioni, Seligman e colleghi proposero che nei partecipanti, i quali avevano sperimentato il fenomeno di simil impotenza, potevano essere individuati tre deficit specifici: motivazionale, emotivo e cognitivo (Abramson, Seligman, & Teasdale, 1978).
- Cognitivo: i soggetti percepiscono le circostanze come incontrollabili (mancanza di controllo)
- Emotivo: i soggetti sperimentano uno stato depressivo conseguente al fatto di trovarsi in una situazione negativa su cui non si può intervenire (mancanza di speranza)
- Motivazionale: i soggetti non rispondono a potenziali metodi per sfuggire alla situazione negativa (mancanza di reazione)
Fattori e connessioni con aspetti depressivi
È facile associare alla luce di tutto ciò, la learned helplessness a condizioni di depressione come disturbo dell’umore più o meno strutturato, e fu ciò che Seligman e colleghi fecero. Distinsero però l’impotenza appresa in due sottotipi per spiegare la varianza all’interno delle diverse manifestazioni depressive.
Con Universal helplessness (impotenza universale) intendevano un senso di impotenza in cui il soggetto crede che non si possa fare nulla per la situazione in cui si trova. Nessuno può alleviare il dolore o il suo disagio.
La Personal helplessness (impotenza personale) è un senso di impotenza molto più localizzato. Il soggetto crede che gli altri, posti nella stessa condizione, sarebbero in grado di trovare una soluzione o saprebbero come evitare il dolore o il disagio, ma è convinto che lui, personalmente, non sia in grado di farlo.
Entrambi i tipi di impotenza possono portare a uno stato depressivo, ma le manifestazioni avranno qualità diverse. Coloro che si sentono universalmente impotenti tenderanno a trovare ragioni esterne sia per i loro problemi che per la loro incapacità di risolverli, mentre coloro che si sentono personalmente impotenti tenderanno a trovare ragioni interne.
Sebbene i deficit cognitivi e motivazionali siano gli stessi sia per le persone che soffrono di impotenza universale che personale, chi soffre di quest’ultima tenderà ad avere un deficit emotivo maggiore e di maggiore impatto: potrebbero infatti sperimentare profondi problemi legati alla bassa autostima a causa della convinzione che gli altri, di fronte ai loro stessi problemi, saprebbero come cavarsela, sottolineando così la loro maggiore incapacità personale.
Altri fattori di distinzione
Oltre che sull’ Universale vs. Personale, l’impotenza appresa può essere distinta anche in base ad altri fattori: Generalità (Globale vs. Specifica) e Stabilità (Cronica vs. Transitoria)
La Generalità si riferisce alla pervasività del fenomeno in diversi settori. L’impotenza globale avrà un impatto negativo in più ambiti di vita di chi ne soffre, i quali avranno anche maggiori probabilità di sperimentare una grave depressione rispetto a coloro che soffrono di impotenza specifica.
Nello stesso modo la Stabilità può incidere sulla gravità della manifestazione depressiva: chi sperimenta impotenza cronica avrà maggiori probabilità di sentire gli effetti dei sintomi depressivi rispetto a coloro che soffrono di impotenza transitoria.
Impotenza appresa e disagio psicologico
Anche se il concetto di learned helplessness è nato ed è stato sviluppato per essere coeso a quello depressivo, ad oggi possiamo parlare di impotenza appresa in modo molto più allargato e generale.
I disagi e le sofferenze delle persone di cui parlavamo nell’introduzione dell’articolo, non necessariamente risultano legate alla depressione.
È bene sottolineare che la strutturazione di un’ideazione di impotenza appresa porta necessariamente a un tono dell’umore più basso e dunque depressivo, ma quest’ultimo non ne è la causa, ma un potenziale aggravante della convinzione.
Una qualsiasi condizione di vita stressante che perduri per molto tempo e di cui non riusciamo a liberarci con le nostre consuete strategie di fronteggiamento, potrebbe essere l’innesco per la costruzione di una convinzione di impotenza.
Gli schemi di comportamento
Spesso i nostri schemi ci portano ad agire, pensare e sperimentare sensazioni in maniera automatica e ormai strutturata: di fronte a un qualsiasi tipo di ostacolo mettiamo in atto delle strategie preferite e preferibili per superarlo. Quest’ultime, con l’abitudine, la frequenza e la rigidità con cui vengono attivate, rischiano di divenire le uniche disponibili in memoria, sia livello semantico che procedurale.
Così, quando la richiesta dell’ambiente richiederebbe una strategia diversa di soluzione, e non ne abbiamo di altre disponibili, mettiamo in atto l’unica al momento fruibile, ma non adeguata per risolvere il nostro problema. L’intestardirsi a utilizzare le stesse inadatte strategie contro quel certo tipo di disagio, ci farà inevitabilmente andare incontro al fallimento.
Sperimentare l’insuccesso in ogni prossima occasione, potrebbe facilmente portare a strutturare una credenza di impotenza, accompagnata da scarsa autostima, auto-efficacia personale e seguente abbassamento del tono dell’umore.
Tale “sindrome” non ci permette di reagire adeguatamente, ma instilla in noi l’idea di non avere altra possibilità d’intervento se non accucciarsi e sperare che la tempesta passi senza causare troppi danni. Il disagio aumenta quando la quotidianità diviene ricca di sfide, ostacoli o semplici richieste a cui abbiamo imparato a non essere in grado di rispondere.
Risorse e interventi
Un modo sicuramente consigliato e utilizzato nei percorsi psicoterapeutici, per intervenire su tale condizione, è il concetto di “agentività” (Agency). Ossia la consapevolezza di avere la possibilità e la facoltà di intervenire sull’ambiente che ci circonda per ottenere risultati a noi utili (Moore et al. 2012).
Synofzik e colleghi (2008) si riferiscono a questo come a “Feeling of Agency”, cioè una sensazione implicita di base di possedere agentività (essere un elemento che può intervenire sul proprio mondo) che ci consente di avviare e controllare azioni per influenzare gli eventi esterni.
Il senso di agency si riferisce alla consapevolezza soggettiva di essere abitati da desideri, intenzioni e scopi, e dalla capacità di iniziare, eseguire e controllare azioni finalizzate al raggiungimento degli stessi.
Pazienti con scarsa agency restano passivi, si sentono preda di forze esterne, per esempio la volontà degli altri o il sistema di regole morali e doveri ai quali sentono che sono obbligati ad aderire, e faticano a iniziare comportamenti nati da loro idee, desideri, e intenzioni (Dimaggio, Ottavi, Popolo et al. 2019)
Sembrerà dunque alquanto scontato, ma il modo migliore per uscire da questa impasse cognitiva è agire!
Ovviamente esistono percorsi e step che possono e devono essere pianificati con cura da paziente e terapeuta. Individuare passo passo azioni che possano essere facilmente agite e dalle quali si ricavi un certo grado di soddisfazione, passare successivamente, e in modo graduale, ad altre più complesse che vadano a intaccare più in profondità lo schema cognitivo, emotivo e comportamentale che ci lega alla condizione di disagio.
Bibliografia
- Abramson, L. Y., Seligman, M. E. P., & Teasdale, J. D. (1978). Learned helplessness in humans: Critique and reformulation. Journal of Abnormal Psychology, 87, 49-74. doi:10.1037/0021-843X.87.1.49
- Cherry, K. (2014). What is learned helplessness and why does it happen? VeryWell Mind. Retrieved from https://www.verywellmind.com/what-is-learned-helplessness-2795326
- Dimaggio, G., Ottavi, P., Popolo, R., Salvatore, G. (2019). Corpo, immaginazione e cambiamento. Raffaello Cortina Editore
- Moore, J. W., Middleton, D., Haggard, P., and Fletcher, P. C. (2012). Exploring implicit and explicit aspects of sense of agency. Conscious. Cogn. 21, 1748–1753. doi: 10.1016/j.concog.2012.10.005
- Seligman, M. E. P., & Beagley, G. (1975). Learned helplessness in the rat. Journal of Comparative and Physiological Psychology, 88, 534-541. doi:10.1037/h0076430
- Seligman, M. E. P., & Groves, D. P. (1970). Nontransient learned helplessness. Psychonomic Science, 19, 191-192. doi:10.3758/BF03335546
- Synofzik, M., Vosgerau, G., & Newen, A. (2008). Beyond the comparator model: A multifactorial two-step account of agency. Consciousness and Cognition, 17, 219–239. doi: 10.1016/j.concog.2007.03.010