La fibrosi cistica è una malattia genetica che colpisce 1 neonato su 2.500 – 2.700 minando la funzionalità di molti organi e influendo pesantemente sull’aspettativa e la qualità di vita di chi ne è affetto.
La causa genetica è una mutazione che inibisce la produzione di una proteina, comportando un’anomalia del trasporto di sali e determinando la produzione di secrezioni “disidratate”, quindi dense e poco scorrevoli che tendono ad accumularsi negli organi formando col tempo cisti e infiammazioni.
Ad essere colpiti dagli effetti della malattia sono principalmente l’apparato respiratorio, le vie aeree, il pancreas, il fegato, l’intestino e l’apparato riproduttivo.
Ad oggi non esistono cure, ma solo terapie indirizzate a rallentare l’evoluzione della malattia, a correggere l’insufficienza pancreatica e a mantenere un buono stato nutrizionale.
In base a quello che oggi sappiamo, nella maggior parte delle persone con fibrosi cistica la durata della vita dipende dall’evoluzione della malattia polmonare.
Questa evoluzione dipende da un insieme di fattori, che sono solo in parte genetici, dato che risultano assumere sempre maggiore importanza i fattori non genetici come le cure praticate e il livello di aderenza ad esse, l’ambiente in cui la persona con fibrosi cistica vive e lo stile di vita che adotta.
Data la grande varietà delle combinazioni di questi fattori, ogni malato è diverso dall’altro, tuttavia per tutti i pazienti i trattamenti prolungati e la necessità di gestire la malattia su più fronti diventano importanti fonti di stress.
Anche per i familiari ed i caregiver l’impatto psicologico dei trattamenti, dei lunghi ricoveri come della gestione quotidiana soprattutto durante l’infanzia dei pazienti, non è un aspetto trascurabile. Inoltre le linee guida per il controllo delle infezioni polmonari, alle quali questi pazienti sono più facilmente soggetti, raccomandano l’isolamento da altre persone affette da fibrosi cistica impedendo di fatto il supporto reciproco e facilitando la sensazione di esclusione.
Un supporto di tipo psicologico e un intervento psicoterapeutico per quei sintomi che possono intervenire anche in età adulta possono influire positivamente sui fattori non genetici che influenzano il decorso della malattia. In una recente review scientifica sull’argomento i vari studi analizzati hanno evidenziato l’importanza di un intervento commisurato all’età e alle esigenze del paziente che aiuti a gestire i vari aspetti.
Uno dei più importanti è l’adesione e la motivazione al trattamento, che con interventi cognitivi e comportamentali può essere promosso superando i blocchi motivazionali e incentivando comportamenti funzionali. Il decorso cronico della malattia può avere importanti effetti sul mondo emotivo del paziente, come ad esempio il momento della scoperta della diagnosi in età più adulta, con la presa di coscienza e gli inevitabili sentimenti di tristezza o rabbia.
Obiettivo del supporto terapeutico può essere anche l’ambivalenza nei confronti dei numerosi e frequenti trattamenti che sono importanti per la salute, ma faticosi e dispendiosi in termini di tempo.
Possiamo trovare spesso emozioni di rabbia o tristezza che derivano dalla difficoltà nel portare avanti una progettualità rispetto ai propri obbiettivi e passioni, che possono essere visti come scopi futuri forse non raggiungibili o per i quali si riesce a vedere solamente il fallimento ultimo e non la gratificazione in sé di avere un valore da perseguire.
Frequenti sono i vissuti di esclusione, la sensazione di isolamento e la tendenza a non parlare della propria condizione, impedendosi di condividere emozioni e sofferenze.
Un supporto psicoterapeutico in questo senso può aiutare ad oltrepassare le proprie credenze sia rispetto alle reazioni degli altri a questa particolare condizione, sia al cambiamento di prospettiva del paziente nei confronti del proprio futuro.
Sono naturalmente frequenti sintomi depressivi o ansiosi, che possono incidere fortemente sulla già citata aderenza al trattamento, minando di fatto la salute del paziente e la qualità di vita in generale. Un approccio motivazionale può aiutare nei primi blocchi dell’aderenza al trattamento, analizzando le credenze e indirizzando verso una maggior funzionalità, sia personale che di relazione.
Interventi cognitivo-comportamentali rivolti ai sintomi e interventi della cosiddetta terza generazione della terapia cognitivo comportamentale, come l’ACT e le tecniche di Mindfulness, possono favorire il superamento di momenti problematici e promuovere un atteggiamento aperto ed accettante nei confronti della malattia e delle sue ripercussioni.