Vi ricordate il film diretto da Michel Gondry con Jim Carrey e Kate Winslet ‘Se mi lasci ti cancello’? In quella pellicola, la ragazza, dopo la fine della relazione con il fidanzato, decide di sottoporsi a un intervento per la cancellazione dal cervello di tutti i ricordi lasciati dalla tumultuosa storia d’amore.
E così è sufficiente uno specifico trattamento perché una persona, che magari si è amata alla follia per anni, scompaia totalmente, come se non la si fosse mai conosciuta.
Il passaggio dalla fantasia alla realtà sembra ormai prossimo, almeno a detta di Raffael Kalisch, Direttore del Neuroimaging Center Mainz che, durante il 9th FENS Forum of Neuroscience (la conferenza biennale della Federazione Europea delle Neuroscienze), tenutosi a Milano dal 5 al 9 luglio scorso, ha presentato i primi risultati sugli effetti sul ricordo di eventi spaventosi della psicoterapia in associazione a un farmaco, chiamato levodopa (o L-Dopa), utilizzato principalmente nella terapia del Parkinson.
Sembra che grazie a questi strumenti sia concreta la possibilità di eliminare dal nostro cervello il passato che non vogliamo ricordare.
Quando un passato non vuole essere ricordato?
Possiamo rispondere a questo interrogativo con un altro: cosa trasforma un evento in qualcosa di traumatico?
Ogni individuo possiede un sistema fisiologico di elaborazione dell’informazione mediante il quale attiva un processo di risoluzione dei problemi, riducendo lo stress emotivo e contribuendo a generare nuovi apprendimenti.
Durante il vissuto di un evento traumatico, le risposte biochimiche da esso elicitate (adrenalina, cortisolo…) bloccano il sistema innato del cervello di elaborazione delle informazioni, lasciando isolate le informazioni connesse al trauma, intrappolate in una rete neurale con le stesse emozioni, convinzioni e sensazioni fisiche che si sono sviluppate al momento dell’evento.
Un evento traumatico, dunque, può causare un’interruzione della normale elaborazione adattiva delle informazioni risultando in un’informazione non elaborata: l’esperienza rimane immagazzinata esattamente nel modo in cui è stata vissuta.
Il quadro si complica dal momento che, come esseri umani, continuamente creiamo relazioni tra eventi, parole, emozioni, esperienze e immagini.
E così, mediante associazioni mentali, innumerevoli stimoli possono elicitare la sofferenza psicologica connessa all’esperienza non ‘digerita’.
Se, per esempio, pensiamo alla chiusura di una relazione significativa, i pensieri relativi ad essa possono essere attivati da una canzone, da un ristorante, da un’emozione di tristezza o da un romantico tramonto, così che risulta praticamente impossibile l’evitamento della sofferenza.
Kalisch e collaboratori hanno scoperto che il processo di modifica delle associazioni negative potrebbe coinvolgere i meccanismi cerebrali legati a piacere e ricompensa, e potrebbe quindi dipendere dal rilascio della dopamina, un neurotrasmettitore che controlla questi meccanismi.
Ecco che la scoperta del gruppo di ricerca tedesco può essere accolta molto positivamente da coloro che soffrono di tutto quel correlato sintomatologico connesso al Disturbo Post-Traumatico da Stress.
Cosa ci può essere di meglio, infatti, che liberarsi dal peso dei ricordi dolorosi di un evento mediante la cancellazione di tutto ciò che è connesso a quella esperienza?
Del resto, questa possibilità sarebbe in linea con un motivo di ordine culturale che spinge le persone a voler cambiare le proprie esperienze interne indesiderate e a mettere in atto l’evitamento esperienziale.
La società occidentale, infatti, supporta l’idea che la felicità sia più facilmente raggiungibile attraverso l’evitamento della sofferenza e che i tentativi di attuare un controllo nei confronti delle proprie esperienze interne dolorose rappresentino la chiave di volta per stare bene.
E così l’evitamento è appreso e incoraggiato da diverse fonti nella storia di vita di ciascun individuo ed è elevato a principale strategia di fronteggiamento nei confronti di stimoli che provocano ansia.
In attesa però che si arrivi a confermare l’efficacia del farmaco L-Dopa nel rimuovere i ricordi dolorosi, si può sempre ricorrere a un intervento psicologico finalizzato a sbloccare il processo adattivo che il nostro cervello compie solitamente e che, nel caso dell’evento traumatico, si è inceppato.
L’EMDR come strumento di elaborazione e di crescita per l’individuo
L’EMDR (acronimo di Eye Movement Desinsitization and Reprocessing) è un approccio di psicoterapia empiricamente validato (per una recente rassegna sull’efficacia terapeutica si rimanda a Shapiro 2014) che, mediante la desensibilizzazione e la rielaborazione attraverso i movimenti oculari – o altre forme di stimolazione bilaterale – permette l’elaborazione del ricordo dell’esperienza traumatica mediante la riattivazione del sistema innato di elaborazione delle informazioni.
In conseguenza di questo processo, la persona inizia a percepire il ricordo come qualcosa di distante, lontano; modifica le valutazioni cognitive di sé, incorporando le emozioni adeguate alla situazione ed eliminando le sensazioni fisiche disturbanti.
Aiutare il cervello a riattivare quel meccanismo bloccato significa permettere ad esso di ritrovare la sua naturale resilienza e di utilizzare l’esperienza traumatica in chiave funzionale-adattiva.
L’opportunità di utilizzare un’esperienza negativa come risorsa di una trasformazione positiva di sé è al centro di un’importante area di ricerca, sviluppatasi ormai da oltre un ventennio, nota come crescita post-traumatica (post-traumatic growth; tra gli altri, Tedeschi e Calhoun, 2004).
La crescita post-traumatica è la possibilità che un evento traumatico funga da stimolo al cambiamento positivo trasformandosi in un’occasione di crescita personale.
L’idea che gli esseri umani possano cambiare in conseguenza della loro capacità di affrontare le sfide della vita non è nuova. Ciò che è ragionevolmente nuovo è lo studio sistematico di questo fenomeno allo scopo di indagare tutto ciò che di positivo consegue a eventi traumatici, quali diagnosi di gravi malattie, lutto, infarto, incidenti di autoveicoli, abuso sessuale, disastri.
Questo non significa che nel caso di una crescita post-traumatica l’evento traumatico si trasformi in qualcosa di positivo. Il processo di crescita, infatti, non elimina il dolore dell’esperienza.
Ciò che cambia è che la devastazione e il senso di confusione lasciati da un trauma possono fornire un’opportunità per aprirsi a nuove modalità di vita, prima non presenti; a una diversa percezione di sé come dotato di maggiore forza; a un cambiamento nelle relazioni interpersonali, con lo sviluppo per esempio di relazioni più intime e di un aumentato senso di connessione nei confronti delle persone che soffrono; infine, a un più grande apprezzamento per la vita in generale.
Quindi, l’integrazione di un evento doloroso della nostra vita, quando opportunamente elaborato, con l’insieme delle altre esperienze può rappresentare un’opportunità di crescita, arricchendo l’individuo.
Siamo sicuri, dunque, che l’eliminazione dei ricordi dolorosi rappresenti la soluzione auspicabile? Personalmente non credo. Siamo quel che siamo, infatti, perché siamo stati quello che siamo stati.