Il concetto di “cura palliativa”, nonostante l’accezione negativa che socialmente siamo abituati ad attribuirgli, non è da considerarsi “inutile” o da interpretare come “effetto placebo”.
Il termine palliativo poi, ha la sua radice etimologica proprio nel latino “pallium” = mantello e, infatti, il senso di coprire, avvolgere, proteggere (come all’interno di un mantello) è quello che più si avvicina al significato che oggi si vuole attribuire al termine palliativo.
Nelle Cure Palliative il controllo del dolore, degli altri sintomi e dei problemi psicologici, sociali e spirituali è di importanza fondamentale, come anche limitare al massimo le procedure burocratiche.
Esse si propongono di migliorare il più possibile la qualità di vita sia per i pazienti che per le loro famiglie, in particolare:
- affermano la vita e considerano la morte come un evento naturale;
- non accelerano né ritardano la morte, conseguentemente sono contrarie a qualsiasi forma di accanimento terapeutico e a qualsiasi forma di eutanasia;
- provvedono al sollievo dal dolore e dagli altri sintomi;
- integrano gli aspetti psicologici, sociali e spirituali dell’assistenza;
- offrono un sistema di supporto per aiutare la famiglia durante la malattia e durante il lutto.
Le Cure Palliative sono state definite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come “…un approccio che migliora la qualità della vita dei malati e delle loro famiglie che si trovano ad affrontare le problematiche associate a malattie inguaribili, attraverso la prevenzione e il sollievo della sofferenza per mezzo di una identificazione precoce e di un ottimale trattamento del dolore e delle altre problematiche di natura fisica, psicofisica e spirituale.”
In quest’ottica, soprattutto negli ultimi decenni, la psicoterapia ha assunto un ruolo centrale nel panorama delle cure palliative ai pazienti terminali e ai loro cari. Alcune ricerche svolte negli ultimi anni, hanno evidenziato come il lavoro psicoterapeutico su un paziente terminale, pur non avendo l’effetto di diminuire il suo dolore fisico o tutti i disagi ad esso connessi, può quantomeno migliorare l’esperienza e la qualità del momento definito “fine-vita”.
Si tratta di una psicoterapia breve individuale, conosciuta anche come “terapia della dignità”, proprio perché i pazienti che ne hanno usufruito, hanno sottolineato come le sedute abbiano accresciuto in misura considerevole e significativa il loro senso di dignità, spesso sottovalutato nelle persone affette da patologie in stato terminale, e quindi migliorando la loro qualità della vita..
In questa terapia, il terapeuta segue un protocollo di domande e impegna il paziente terminale in una conversazione, più che non in un colloquio clinico strutturato sugli aspetti importanti della sua vita e su ciò che vorrebbe fosse ricordato di sé dopo la sua morte. La seduta viene registrata e trascritta. La trascrizione viene quindi data al paziente, che deciderà se dovrà essere condivisa con amici e familiari.
Resta ora da capire l’effetto che queste trascrizioni possono avere sui familiari, in particolare quelli con cui il paziente aveva perso i contatti o sui bambini che perdono un genitore. “Dobbiamo trovare il modo di misurare questi aspetti altrettanto importanti, per dimostrare che stiamo facendo la differenza”, ha detto uno dei ricercatori.
Uno studio in particolare (Harvey Max Chochinov, Università di Manitoba, Winnipeg), aveva la finalità primaria di capire se la psicoterapia fosse realmente in grado di ridurre lo stress del paziente nell’ultima fase della sua vita: la risposta ottenuta è che la terapia della dignità non ottiene questo obiettivo, come scrivono i ricercatori su The Lancet Oncology.
I ricercatori hanno coinvolto 441 pazienti con un’aspettativa di vita di sei mesi (o meno) che ricevevano cure palliative in un ospedale, in una struttura hospice, o a domicilio. Seppure, come già accennato, l’intervento non ha assolutamente influito sul livello di stress provato dai pazienti, uno studio successivo ha indicato che la “terapia della dignità” presenta comunque alcuni vantaggi rispetto al trattamento standard delle cure palliative o delle cure centrate sul cliente.
Rispetto agli altri due interventi infatti, i pazienti che hanno ricevuto la “terapia della dignità” l’hanno giudicata “utile”, sia per loro che per i loro familiari, sostenendo che:
- ha migliorato la loro qualità di vita;
- ha aumentato il loro senso di dignità;
- cambiato il modo in cui i familiari si sono rapportati a loro.
I risultati dimostrano che la “terapia della dignità” è stata significativamente migliore rispetto alla terapia centrata sul cliente per migliorare il benessere emotivo, così come rispetto alle cure palliative standard, per alleviare il senso di tristezza o la depressione, solitamente presenti in questi pazienti. Rispetto alle cure palliative, una maggiore proporzione di pazienti che si è sottoposta alla “terapia della dignità” ha riferito che il gruppo di studio era stato soddisfacente.
“Ulteriori ricerche dovranno essere fatte per esplorare gli effetti benefici della terapia della dignità”, hanno concluso i ricercatori “per svelare la complessità psicologica, spirituale ed esistenziale che riguarda un individuo di fronte alla morte, e capire quale è il miglior modo per sostenere i pazienti con una malattia avanzata o terminale, così come le loro famiglie”.