Quando una persona soffre di disturbo ossessivo compulsivo (DOC), il disagio si estende in maniera significativa anche alle persone ad essa vicine, portandole a sperimentare elevati livelli di stress e una notevole compromissione della qualità della vita (Turner, Krebs, & Destro, 2017).
Se tale considerazione circa gli effetti disfunzionali sull’ambiente familiare può essere valida per quanto riguarda tutta la sfera della psicopatologia, questa sembra essere particolarmente evidente proprio per questo disturbo, in misura maggiore rispetto ad altri (Lochner et al., 2003).
Le conseguenze si manifestano principalmente in termini di aumentati livelli di ansia, depressione e distress e in un generale peggioramento della qualità della vita. Se ci focalizziamo sulle relazioni sentimentali, sono state evidenziate difficoltà coniugali e sessuali e alti livelli di insoddisfazione di coppia (Black et al., 1998).
Ovviamente, utilizziamo qui il termine “familiare” in senso lato, volendo includere non solo i congiunti (coniugi, figli, genitori), ma anche tutte le persone vicine al paziente, quali ad esempio partner e amici.
In che modo i familiari vengono coinvolti nel disturbo?
I familiari dei pazienti con DOC possono essere coinvolti nel disturbo secondo varie modalità, più o meno dirette.
Come accennato sopra, è evidente che tutti i disturbi psichici abbiano un riflesso anche sulla vita dei familiari dei pazienti, che in generale si riassume con l’espressione “coinvolgimento a-specifico”, ad indicare proprio il carico derivato dal prendersi cura di una persona che presenta un disturbo invalidante e spesso cronico.
Nel DOC, tuttavia, esiste anche un “coinvolgimento specifico”, dettato proprio dalla natura della sintomatologia stessa (Mancini et al., 2023).
Il paziente può richiedere la partecipazione attiva ai rituali compulsivi, ad esempio delegando al familiare la messa in atto dell’azione o chiedendo di essere osservato e controllato mentre la sta eseguendo lui stesso. Può chiedere che l’intera routine quotidiana venga adattata alle esigenze dettate dalla sintomatologia. Può indurre i familiari ad assecondarlo nelle strategie di evitamento, così da essere sollevato (temporaneamente) da vissuti di ansia e disagio. Oppure può rivolgersi alle persone vicine nella continua richiesta di rassicurazioni.
Il concetto di family accomodation
La difficoltà sperimentata dai familiari ruota attorno ad un dilemma principale: assecondare o non assecondare il proprio caro?
È meglio soddisfare le richieste e sollevare la persona dalle preoccupazioni, che spesso raggiungono livelli altissimi, oppure sottrarsi e riappropriarsi della propria libertà di scelta a costo di assistere ad un’escalation di ansia?
Spesso i familiari si trovano ad oscillare tra questi poli opposti. Tale oscillazione è stata descritta da Van Noppen (1991) che, per indicare il livello di coinvolgimento offerto dai familiari, ha utilizzato l’espressione family accomodation.
Secondo questa prospettiva, il coinvolgimento familiare si snoda lungo un continuum, ai cui estremi si collocano le due modalità opposte: da una parte la compiacenza, dall’altra l’antagonismo.
La modalità compiacente
Nella modalità compiacente, il familiare decide di assecondare le richieste del paziente, nel tentativo di aiutarlo a diminuire il disagio sperimentato. I vissuti del familiare in questa fase sono spesso connotati da allarme, preoccupazione, sollecitudine verso la sofferenza del proprio caro e senso di colpa all’idea di sottrarsi.
Sebbene in un primo momento il paziente sembri trarre sollievo da questo tipo di risposta, i benefici non durano a lungo. Anzi, proprio per come è strutturato tale disturbo, l’accondiscendenza familiare si connota come uno dei fattori di mantenimento della problematica.
È stato evidenziato come più alti livelli di compiacenza, in termini di adesione ai rituali, corrisponda ad una maggiore gravità dei sintomi (Amir et al, 2000) e sia risultata associata negativamente all’esito della terapia (Wu et al, 2016).
Quando le richieste diventano insistenti e i tentativi messi in atto fino a quel momento si rivelano del tutto inefficaci, il familiare può sperimentare emozioni quali rabbia, frustrazione, insofferenza, senso di costrizione e irritabilità. Questi lo portano a rifiutarsi di assecondare nuovamente le richieste. Il familiare, non comprendendo il significato funzionale della sintomatologia, può arrivare a giudicare il paziente come “esagerato”, “fissato”, “pazzo”, attribuendo il problema ad una generica “mancanza di buona volontà”.
La modalità antagonista
Sebbene non assecondare il paziente, come vedremo in seguito, sia un passaggio fondamentale nel processo di trattamento e sebbene sia un diritto assolutamente legittimo per il familiare rifiutarsi e riacquisire la propria libertà, anche questa scelta, per essere di aiuto, deve essere fatta seguendo certi criteri.
Se il familiare diventa ostile, critico e colpevolizzante può andare ad alimentare nel paziente la valutazione negativa che molto spesso questo ha già di se stesso come “strano”, “spacciato”, “sbagliato” o “fallito”, accrescendo in lui vissuti di impotenza e depressione.
Uno strumento per valutare il grado di coinvolgimento dei familiari è la Family Accomodation Scale for Obsessive- Compulsive Disorder- FAS (Calvocoressi et al, 1999), di cui esiste anche una versione auto-somministrata (FAS Self-Rated).
Si tratta di uno strumento messo a punto da un gruppo di ricercatori dell’Università di Yale, tradotto e validato in varie lingue, da somministrare ad un membro della famiglia del paziente, o comunque ad una persona a lui abbastanza vicina da poter essere coinvolta nel percorso di trattamento.
È suddiviso in due parti: nella prima parte si chiede di indicare quali ossessioni e quali compulsioni presenta il proprio familiare. Nella seconda parte vengono indagati e misurati, in termini di frequenza, tutti quei comportamenti che rappresentano un adattamento alla sintomatologia del paziente, come ad esempio aver fornito delle rassicurazioni, aver modificato la routine quotidiana, aver fatto azioni al posto del paziente, aver agevolato condotte di evitamento, ecc…
Coinvolgere il familiare nel percorso terapeutico
Alla luce di quanto esposto, risulta evidente l’importanza del coinvolgimento del familiare all’interno del percorso terapeutico, laddove possibile.
Nel manuale intitolato “La terapia cognitivo comportamentale del disturbo ossessivo compulsivo” (Melli e Carraresi, 2023), recentemente edito da Erickson, sono descritte le fasi in cui è auspicabile coinvolgere la persona più vicina al paziente per facilitare il processo di cambiamento del paziente stesso.
È molto importante ricordare, tuttavia, che la responsabilità ultima del percorso terapeutico è solo ed esclusivamente del paziente che, insieme al proprio terapeuta, decide di impegnarsi e aderire al trattamento proposto. Il ruolo del familiare è, quindi, non di cura, ma di supporto a tale processo.
La prima fase
Il primo momento di coinvolgimento si colloca durante la fase di psicoeducazione, finalizzata alla condivisione del modello di funzionamento del disturbo, della concettualizzazione basata sulle specificità presentate dal paziente, dei meccanismi di mantenimento, del razionale dell’intervento e dei principi del trattamento.
In questa fase viene spiegato al familiare il significato funzionale dei sintomi presenti, al fine di ristrutturare miti, credenze e attribuzioni erronee relative al disturbo.
In questo modo si ridurrà il livello di criticismo e colpevolizzazione, favorendo l’attivazione di un “lavoro di squadra” che ha come target il disturbo, al quale potrà anche essere attribuito un nomignolo, condiviso tra familiare e paziente, per favorire il distanziamento dal nemico comune e l’alleanza di lavoro.
La seconda fase
La seconda fase che prevede il coinvolgimento del familiare è quella di intervento comportamentale che, secondo il modello cognitivo comportamentale, è centrata sugli esercizi di esposizione e prevenzione della risposta.
In questa fase il familiare potrà divenire un valido co-terapeuta, incoraggiando e sostenendo il paziente durante la messa in atto degli homework.
È importante ricordare che ogni esposizione deve seguire il principio di gradualità ed è pertanto sbagliato spingere il paziente ad esporsi ad un task più attivante rispetto a quello concordato con il terapeuta. Così come può essere del tutto inutile impedire di mettere in atto le compulsioni (anche se era stato prefissato l’obiettivo di resistere).
Se durante lo svolgimento degli esercizi insorgono delle difficoltà non previste, sarà compito del paziente riferirle in seduta, così che possano essere individuate ulteriori strategie di problem solving.
In questa fase, pertanto, l’aiuto fornito dal familiare si basa principalmente sull’interruzione dei meccanismi di mantenimento del disturbo, come la progressiva riduzione o eliminazione della propria partecipazione ai rituali compulsivi, l’offerta di rassicurazioni o l’accondiscendenza alle condotte di evitamento, sempre nel rispetto della gradualità concordata con il terapeuta.
Come comunicare col paziente
È importante che il familiare impari a comunicare con il paziente secondo una modalità assertiva, che tenga conto della validazione delle emozioni difficili, ma anche della necessità di rimanere fermi nell’opporsi alle richieste disfunzionali avanzate dal paziente.
A questo proposito, come descritto nel manuale, possono essere effettuati in seduta dei role-playing in cui far esercitare il familiare nella comunicazione assertiva, suggerendo frasi quali ad esempio: “Capisco che tu stia sperimentando molta ansia per via del disturbo, ma abbiamo analizzato con il tuo terapeuta che questo non ti aiuta. Possiamo trovare un’alternativa più funzionale per te?”
Un’altra modalità di aiuto da parte del familiare consiste nel ricordare al paziente i concetti fondamentali appresi in seduta, anche attraverso l’utilizzo di flash cards, cioè promemoria scritti da rileggere nei momenti di difficoltà. Ad esempio: “Evitando ciò che ti dà ansia, il disturbo si rinforza”; “Le emozioni sono transitorie”; “Anche se adesso sei attivato perché ti sei esposto, questo disagio prima o poi scemerà”.
Durante tutta la fase di intervento comportamentale sarà poi necessario incoraggiare il paziente, sottolineando l’impegno profuso e rinforzando ogni progresso, anche minimo, con apprezzamenti autentici.
La terza fase
La terza fase in cui il coinvolgimento del familiare si è rivelato molto importante è quella finale, della cosiddetta prevenzione delle ricadute.
Questo passaggio è fondamentale per il paziente, per stabilizzare i risultati ottenuti e allenarsi a fronteggiare eventuali “scivoloni” che possono ripresentarsi.
È molto importante, anche per il familiare, adottare un atteggiamento equilibrato tra una posizione non allarmistica e l’attenzione a cogliere e non sottovalutare segnali di difficoltà.
In questa fase, il familiare può essere di aiuto nell’incoraggiare il paziente a continuare ad esporsi, nel ricordargli la possibilità di ricorrere a specifici strumenti appresi in terapia, nel cogliere segnali precoci di una possibile ricomparsa dei sintomi e nel prestare attenzione a non riattivare nuovi comportamenti di accomodation.
Conclusioni
La possibilità di coinvolgere un familiare all’interno di specifiche fasi di trattamento sembra dunque essere una risorsa preziosa che può avere effetti benefici sia diretti, in termini di riduzione della sintomatologia presentata, che indiretti, attraverso l’incremento del benessere generale del paziente. Questi potrà contare sul miglioramento del clima familiare e sulla presenza di una rete sociale empatica e supportiva.
In questo modo il sistema familiare, da fattore di mantenimento, si trasforma in una risorsa per il cambiamento.
Benché non sia tra gli obiettivi espliciti del trattamento, è possibile immaginare l’insorgenza di benefici anche per il familiare stesso, che uscirà da questa esperienza non solo più a informato e dotato di skills per aiutare il proprio caro, ma anche alleggerito, più tollerante nei confronti del disagio e in grado di comunicare più assertivamente.
Bibliografia
- Amir, N., Freshman, M., & Foa, E. B. (2000). Family distress and involvement in relatives of obsessive-compulsive disorder patients, Journal of Anxiety Disorders, 14(3), 209-217.
- Black, D. W, Gaffney, G., Schlosser, S., & Gabel, J. (1998). The impact of obsessive-compulsive disorder on the family: Preliminary findings. The Journal of Nervous & Mental Disease, 186 (7), 440-442.
- Calvocoressi, L., Mazure, C. M., Kasl, S. V., Skolnick, J., Fisk, D., Vegso, S. J., et al. (1999). Family accommodation of obsessive-compulsive symptoms: instrument development and assessment of family behavior. Journal of Nervous & Mental Disease, 187, 636-642.
- Lochner, C., Mogotsi, M., du Toit, P. L., Kaminer, D., Niehaus, D. J., & Stein, D. J. (2003). Quality of life in anxiety disorders: A comparison of obsessive-compulsive disorder, social anxiety disorder, and panic disorder, Psychopathology, 36(5), 255-262.
- Mancini, F., Spera, P., & Turri, A. (2023). Io non (me ne) lavo le mani! Vivere con una persona con il Disturbo Ossessivo Compulsivo. Milano: Franco Angeli.
- Melli, G., & Carraresi, C. (2023). La Terapia Cognitivo Comportamentale del Disturbo Ossessivo Compulsivo. Manuale completo per l’assessment e il trattamento. Trento: Erickson.
- Turner, C., Krebs, G., & Destro, J. (2017). Family-based conceptualization and treatment of obsessive-compulsive disorder. In J. S. Abramowitz, D. McKay, & E. A. Storch (Eds.), The Wiley Handbook of Obsessive-Compulsive Disorders (pp. 614-631). Hoboken, NJ: Wiley Blackwell.
- Van Noppen, N. L., Rasmussen, S. A., Eisen, J., & McCartney, L. (1991). A multifamily group approach as an adjunct to treatment of obsessive-compulsive disorder. In M. T. Pato & J. Zohar (Eds.) Current treatments of obsessive compulsive disorder (pp. 115-134). Washington DC: American Psychiatric Press.
- Wu, M. S., McGuire, J. F., Martino, C., Phares, V., Selles, R. R., & Storch, E. A. (2016), A meta-analysis of family accommodation and OCD symptom severity. Clinical Psychology Review, 45, 34-44.