Al fine di arginare la piaga delle violenze sessuali nei campus universitari, la California è stato il primo stato americano ad adottare una legge specifica riguardo all’attività sessuale dei propri studenti, volta a fare chiarezza sulle ambiguità attorno ai casi di violenza.
In base alla legge “Yes means Yes” (vale a dire solo se dico Sì vuol dire Sì), il consenso viene definito come un accordo affermativo consapevole e volontario di avere un rapporto sessuale. Occorre dunque un consenso chiaro affinché l’atto sessuale non sia violenza. Il testo esclude che il silenzio o la mancanza di resistenza della vittima siano sufficienti a indicare un consenso.
Spesso le indagini sulle violenze sessuali vengono insabbiate proprio col pretesto che la vittima non aveva lottato, non aveva tracce fisiche di un’aggressione, ferite o abrasioni.
È dello scorso anno una sentenza nel nostro paese – relativa a una vicenda di una ragazza di 16 anni vittima di una violenza di gruppo da parte di amici adolescenti – che ha stabilito che se non ci sono urla, calci e pugni nei confronti di coloro che agiscono la violenza non si può dimostrare che vi sia stato un abuso.
Se è vero che il comportamento passivo della vittima potesse indurre a sospettare che non avesse la lucidità necessaria a fornire un valido consenso all’atto sessuale è altrettanto vero, si legge nella sentenza, che l’assenza di azioni di respingimento e invocazioni di aiuto avrebbe potuto ingenerare la convinzione che la ragazza fosse consenziente.
Stephen Porges, neuroscienziato e psicofisiologo di Chicago, mediante la Teoria polivagale, ha cercato di rispondere alla domanda su come una persona, che non è disposta ad avere un rapporto sessuale, possa acconsentire alla richiesta e non lottare con l’abusatore. In un recente articolo pubblicato su Biofeedback, Porges ha spiegato perché molte vittime di violenza sessuale non si oppongano attivamente.
Secondo la Teoria polivagale l’atto di non rispondere non è altro che una primitiva risposta di immobilizzazione con paura a una minaccia estrema, che può essere erroneamente interpretata dall’aggressore come una passiva accettazione.
La Teoria polivagale di Porges
La Teoria polivagale di Porges sul Sistema Nervoso Autonomo (SNA) consente di comprendere ciò che succede a livello neurofisiologico quando un evento stressante occorre nella vita di un individuo.
Prima di Porges era in auge una vecchia interpretazione per la quale il SNA era costituito da due rami antagonisti: il Sistema Simpatico e il Sistema Parasimpatico, che competevano per aumentare o diminuire l’attività di alcuni organi. Quindi a un’attivazione simpatica surrenale era indicata una risposta antagonista di inibizione parasimpatica vagale.
La Teoria polivagale di Porges estende la gamma delle risposte considerando tre sottosistemi organizzati gerarchicamente: si tratta di tre circuiti neuronali corrispondenti a tre stati filogenetici di sviluppo e tre strategie di difesa. Secondo Porges, mediante un processo da lui chiamato neurocezione, il nostro cervello sarebbe costantemente impegnato nella valutazione dei rischi presenti nell’ambiente e nel reagire automaticamente, senza consapevolezza, a seconda che gli stimoli siano considerati sicuri, pericolosi o minaccianti la vita.
In condizioni di sicurezza è attivo il circuito ventro vagale, che è il sistema evolutosi più di recente, il quale supporta la comunicazione oltre a stabilire e mantenere legami sociali. Ha un effetto calmante (il cosiddetto freno vagale) in quanto tiene a bada il circuito simpatico. Mediante una costante attenzione, anche inconsapevole, ai segnali provenienti dall’interazione con un conspecifico (voce, collo, contatto oculare…) e dall’ambiente, valuta la sicurezza della situazione e inibisce le risposte di difesa del circuito simpatico.
Laddove si verificasse una condizione di pericolo, il freno vagale si ritirerebbe ed entrerebbe in azione il circuito simpatico. Esso regola l’attivazione fisiologica della nostra risposta attacco-fuga, che è la risposta d’elezione dei mammiferi. Quando il circuito simpatico si attiva, si produce una reazione d’allarme in cui aumenta la frequenza cardiaca e quella respiratoria, aumenta la pressione arteriosa, preparando il corpo a una reazione di attacco/fuga, che costituisce la più rapida risposta al pericolo.
Se il circuito simpatico non basta ad assicurare una risposta funzionale alla sopravvivenza, perché la minaccia è potenzialmente soverchiante per la vita, entra in azione il circuito dorso vagale. Si verifica un’immobilizzazione con paura, che è la risposta elettiva dei rettili, e che nell’uomo si traduce in uno stato di ottundimento emotivo.
Questo sistema di difesa primitivo innesca una reazione di difesa totalmente differente dal circuito simpatico: il nostro battito cardiaco e la nostra pressione arteriosa diminuisce; c’è come uno spegnimento fisiologico in cui la persona appare come morta e si producono oppioidi endogeni in modo da avere un effetto analgesico che riduca la sensibilità al dolore. Si tratta di uno stato psicofisiologico che rappresenta l’origine della dissociazione.
La Teoria polivagale, mediante la conoscenza neurofisiologica, spiega dunque perché alcuni individui in situazioni di grave minaccia non reagiscono.
I segnali che raggiungono il cervello, mediante il processo di neurocezione, automaticamente innescano la reazione primitiva di immobilizzazione. Questa risposta non è conscia e non ha niente a che vedere con scelte, intenzioni o desideri. È come un riflesso che spegne il corpo, preparandolo a un grave danno e/o alla morte, e gli impedisce di attivare una reazione di attacco o di fuga.
In generale, la probabilità che s’inneschi questa risposta di immobilizzazione aumenta quando l’individuo è fisicamente bloccato o si trova in un ambiente fisico ristretto.
Non dire NO non significa dire SÌ
La Teoria polivagale di Porges ci fornisce così una spiegazione neurofisiologica del perché non dire No nel caso di una violenza sessuale non significhi dire Sì.
Molti uomini assumono che, se la donna non dice No, il rapporto sessuale è consensuale e non si tratta di violenza. In questi casi gli uomini interpretano l’assenza di risposta come un’accettazione passiva.
Del resto, molte donne riferiscono proprio di non essere state in grado di dire No nel momento in cui l’aggressore è risultato minaccioso o ha bloccato fisicamente la loro capacità di muoversi. Al momento del blocco fisico, infatti, le vittime non si sono sentite più in grado di convogliare le risorse necessarie a comunicare in modo chiaro che loro non volevano avere un rapporto sessuale.
La risposta di immobilizzazione durante la violenza sessuale è proprio uno degli elementi più difficili da superare per le persone vittime di abuso.
Si prova vergogna per non essere scappati urlando, per non essere riusciti a combattere contro il proprio aggressore e la vergogna può spingerci a non parlarne, come a temere che qualcuno possa attribuire a noi la responsabilità di quanto successo, non essendo riusciti a fare tutto il possibile per venire fuori da quella situazione. E forse perché in fondo a noi piaceva. Ce la siamo cercata. Orrore. Ci si sente violentati una volta di più.
E così si rimane nella vergogna di far parte di coloro che hanno subito un abuso sessuale, che si traduce nel non essere stati abbastanza forti da impedirlo. Si prova profondo disprezzo nei confronti di sé per non essere stati capaci di difendere noi stessi dalla violenza. Non c’è stata lotta. Solo un pianto silenzioso e doloroso e il convincersi che non fosse successo niente di grave.
Una grande difficoltà nel lavoro terapeutico con le vittime di violenza sessuale sta proprio nel portare la persona a riconoscere che l’attivazione del circuito dorso vagale ha avuto un valore adattivo al momento del trauma.
Dobbiamo riuscire a farle sentire che la sua reazione di paralisi aveva lo scopo di salvarla da rischi più gravi che minacciavano la sua sopravvivenza. Le nostre reazioni passive sono, infatti, pienamente giustificabili in termini filogenetici: il mammifero sa bene che l’animale morto non interessa al predatore.
Lo star fermi, l’arrendersi all’aggressore, la sottomissione hanno un valore adattivo dal punto di vista evoluzionistico. Spesso i pazienti invece si sentono deboli, inetti per non essere riusciti a comportarsi diversamente. La reazione di passività è vissuta come qualcosa di fallimentare, segno di una loro intrinseca difettosità o incapacità.
La Teoria polivagale dunque, oltre a fornire un contributo scientifico di grande rilevanza, ha anche il merito di restituire dignità fisiologica a un corpo che è stato violato durante la violenza. Quel corpo infatti non ha niente di sbagliato. Ha solo attivato l’ultima ed estrema strategia di difesa rispetto a uno stimolo minacciante la vita. Ed è proprio il riuscire a sentire che la sopravvivenza sia legata all’intrinseca saggezza fisiologica del nostro corpo che può aiutare coloro che hanno vissuto un’esperienza di abuso a rendere grazie al loro corpo, invece di distruggerlo.
Bibliografia:
Porges, S. W., & Peper, E. (2015). When not saying NO does not mean Yes: Psychophysiological factors involved in date rape. Biofeedback; 43(1): 45-48.
Giovannozzi, G. (2015). Applicazioni cliniche della Teoria Polivagale di Porges all’EMDR. Rivista di psicoterapia EMDR. Anno IX. N. 30: 8-12.