Un nuovo studio condotto dai ricercatori dall’Università della Virginia, pubblicato nel 2013 su Social Cognitive and Affective Neuroscience, supporta una scoperta che sta guadagnando sempre più slancio, alimentata proprio dai riscontri scientifici degli ultimi anni: il cervello umano è predisposto per connettersi con gli altri in modo così forte che è come se quell’esperienza che gli altri sperimentano stesse accadendo a noi.
Questa sembrerebbe la base neuronale dell’empatia – la capacità di sentire quello che gli altri sentono – ma va anche oltre questo. I risultati di questo ultimo studio, infatti, suggeriscono che il nostro cervello non risponda in modo differenziato a ciò che accade a noi e a ciò che accade a qualcuno a noi emotivamente vicino, e mostrano anche che sembriamo essere neurologicamente incapaci di generare un simile livello di empatia per persone estranee.
Per scoprire questo, i ricercatori hanno usato un metodo un po’ “medievale”. I partecipanti allo studio sono stati sottoposti a una risonanza magnetica funzionale mentre venivano minacciati di essere sottoposti a una scarica elettrica, o che questa venisse somministrata a un amico o a una persona estranea.
I risultati hanno mostrato come quelle regioni del cervello che solitamente si attivano di fronte a una minaccia personale – l’insula anteriore, il putamen e il giro sopramarginale – non mostrassero attività quando i ricercatori minacciavano di shock elettrico una persona estranea, ma invece si attivassero sostanzialmente in modo analogo alla situazione di minaccia per la propria persona quando ad essere minacciate erano delle perone amiche.
“La correlazione-attivazione tra sé e persone care è pressoché identica” dice James Coan, professore di psicologia all’Università della Virginia e co-autore dello studio. “I risultati mostrano la grande capacità del cervello umano di modellarsi in relazione agli altri; le persone con cui abbiamo un legame di vicinanza emotiva diventano parti di noi stessi, e questa non è solo una metafora o poesia, è qualcosa di davvero reale. Letteralmente noi percepiamo la minaccia quando un amico è minacciato. Ma non quando lo è una persona estranea”.
Questo risultato rafforza un’affermazione fatta dal progenitore e divulgatore della “Neurobiologia Interpersonale”, Daniel Siegel, che ha sostenuto in modo convincente che le nostre menti sono in parte definite e plasmate dal loro interagire con altre menti. Detto in altro modo, noi siamo predisposti per “sincronizzarci” con gli altri, e più ci sincronizziamo (più ci connettiamo psico-emotivamente) meno i nostri cervelli riconoscono distinzioni tra sé e l’altro.
Le ricerche su questo argomento si incastrano anche benissimo con lo studio condotto dallo psicologo evoluzionista Robin Dunbar, che ha mostrato come ci siamo evoluti per connetterci cognitivamente in gruppi relativamente piccoli (all’incirca 150 persone o meno).
Oltre quel numero il nostro cervello fa fatica a connettersi con gli altri. Da un punto di vista evolutivo questo sembra avere senso, perché le possibilità di “sopravvivenza” per noi stessi e per il gruppo sono amplificate quando possiamo ottimizzare, sincronizzandole, le nostre risorse cognitive.
Come dice Coan, “quando sviluppiamo una amicizia, possiamo aver fiducia e fare affidamento su chi, in fondo, diventa ‘noi’; in questo modo le nostre risorse sono amplificate, siamo potenziati. Il tuo obiettivo diventa il mio. È parte della nostra sopravvivenza”.