Il tragico evento che recentemente ha dato la morte ai passeggeri del volo A 320 della Germanwings – partito da Barcellona e mai arrivato a Dusseldorf – e al suo autore, il pilota Andreas Lubitz, solleva molte questioni.
Una di queste, non la prima per importanza ma neppure l’ultima, è la riflessione sulla notizia divulgata da alcuni Media che il pilota suicida-omicida soffrisse di depressione.
Non trovo strano menzionare una diagnosi psichiatrica, cosa legittima e che riguarda purtroppo una situazione che fa parte delle cose del mondo.
A preoccuparmi è la leggerezza, tutt’altro che ingenua, con cui a volte i Media affrontano il tema “Depressione” e la trascuratezza nel prevedere le conseguenze che si determinano nella società.
Non vuole essere un attacco generale ai Media o alla classe giornalistica costituita da molte persone perbene. Partirei intanto dall’utilità che ha la formulazione della diagnosi in ambito psichiatrico.
La diagnosi è una componente importante della comunicazione che si instaura tra lo psichiatra e i pazienti o colleghi. La diagnosi è indispensabile per fare intraprendere decisioni logiche riguardanti quale intervento intraprendere o se è il caso di non intervenire affatto.
La diagnosi rassicura il paziente sul fatto che la sua situazione non è unica, che non è qualcosa di strano, misterioso e inspiegabile; che esiste un bagaglio di conoscenze che può portare una qualche forma di aiuto. La diagnosi può ridurre i sentimenti di colpa o colpevolizzanti. Può far superare concetti vaghi come quello di “debolezza di carattere”.
La diagnosi può essere d’aiuto nell’accettare di essere “diversi” o di non funzionare come la maggioranza delle persone. Può ridurre i sentimenti di vergogna e di scarsa autostima. Può migliorare il dialogo tra professionisti e amministrazione pubblica in merito ai supporti e servizi necessari. Può far mettere in contatto persone che hanno lo stesso problema. E molto altro.
Nonostante tutte queste utilità ogni psichiatra sufficientemente acculturato è sempre ben consapevole dei limiti delle categorie diagnostiche.
Conosce l’importanza di guardare la persona e la situazione ben oltre la diagnosi. Sa bene che la diagnosi in sé non dice mai nulla se non è arricchita di informazioni riguardanti la storia personale del soggetto, gli eventi che hanno accompagnato la fase di scompenso, la tipologia dei sintomi, la gravità e il livello di compromissione funzionale, il livello di aderenza ai percorsi terapeutici.
Così per lo psichiatra di cui sopra la diagnosi di “Depressione” non vuol dire molto se non corredata da altre informazioni riguardanti la struttura di personalità, la modalità con cui si seguono le cure, la presenza o meno di ideazione suicidiaria – sappiamo bene che non tutti i depressi pensano al suicidio – la presenza di sintomi psicotici, il numero di crisi avute nel corso della vita, i livelli di funzionamento nelle fasi intercritiche, la presenza o meno di disturbi dello spettro ansioso, l’abuso di alcol o sostanze stupefacenti. Solo per citarne alcune.
Non esiste la Depressione ma la persona affetta da Depressione e comunque si parla sempre di un disturbo che, se ben curato, può portare a una prognosi favorevole con un’ottima percentuale di risposte positive. I casi ritenuti gravi o resistenti alle terapie sono sempre una minoranza rispetto alle forme che rispondono positivamente ai trattamenti.
Se è così per uno psichiatra è lo stesso per l’ascoltatore o lettore medio? E’ poco probabile. Molto più probabile è che nella società, vedendo associare il temine Depressione a gravi fatti di cronaca, si insinui il pensiero, pericoloso e falso, che la Depressione di per sé porta a commettere i gravi fatti riportati dai Media. Ne consegue intanto un aumento della diffidenza verso i soggetti realmente affetti da tale patologia e lo stigma che ne esce rinforzato.
Vi è l’angoscia di chi sta accanto a un soggetto affetto da depressione o della persona stessa al solo pensiero che si potrebbero commettere fatti orribili proprio come quelli riportati dai Media, fino al vero e proprio sviluppo di timori ossessivi di aggressività. Ciò può portare a rifiutare un contatto con uno specialista e le cure per non sentirsi dire “Lei ha un disturbo depressivo”.
Purtroppo il problema non è numericamente trascurabile se consideriamo che l’Organizzazione Mondiale della Sanità prevede che nel 2020 la Depressione sarà tra le malattie mentali la più diffusa al mondo e dopo le malattie cardiovascolari la malattia più frequente in generale.
Per i Media dire che Andreas Lubitz era affetto da una grave forma di disturbo psichico, invece di parlare in modo improprio e semplicistico di Depressione, avrebbe limitato il loro dovere o diritto di informazione?
La domanda è retorica perché sappiamo bene che la risposta è: no. Ma si sa che parlare di Depressione incuriosisce il pubblico, molto più di una vaga forma di grave disturbo psichico, e ciò comporta un aumento dell’audience o di qualche copia venduta.
Non c’è una superficialità descrittiva, una sbadataggine, da parte dei Media che hanno adottato tale termine ma un preciso intento che, pur di raggiungere gli obiettivi fissati, ignora le conseguenze etiche e pratiche che ne derivano.
E’ già successo con altri fatti di cronaca, che nulla avevano a che fare con la Depressione, e prepariamoci a casi analoghi che accadranno.
Anche questa è una forma di delitto che uccide la riflessione matura su cosa è la Depressione e cosa può realmente derivare da questa.
Eppure sempre più spesso i Media proseguono nell’etichettare tutto come Depressione. “Cui prodest” – “A chi giova” – chiedeva Seneca. Di sicuro ciò non giova alle persone depresse, ai familiari e all’evoluzione della società.
Per i curiosi la frase completa di Seneca era: “Cui prodest scelus, is fecit”, “Il delitto lo ha commesso colui al quale esso giova”.