Nascita del cinema e della psicologia
In principio chi ha inventato il cinema era semplicemente incuriosito dall’idea di rappresentare la realtà in movimento. Chi ha dato inizio al successo della psicologia ignorava l’intreccio che avrebbe avuto il cinema con il tema del disagio psichico.
I due percorsi nascevano insieme e indipendenti uno dall’altro: era il 1895 quando i fratelli Lumiere creavano il cinema e Freud, insieme a Breuer, scriveva gli Studi sull’Isteria.
Oggi il rapporto tra le due aree ci sembra scontato – chi, almeno una volta, non ha fatto cenno alle sfumature psicologiche di un film lanci la prima pietra. Partiamo inoltre dal presupposto che esista comunque in noi un cinema mentale costante, nei nostri pensieri e nelle nostre emozioni, presente ancor prima dell’invenzione del cinema (lo diceva Italo Calvino).
Lo psicologo Hugo Mürstelberg riteneva che il cinema e la mente avessero reciproche analogie: molte tecniche del cinema infatti simulano il modo di lavorare della mente. Riteneva che il film fosse in grado di rendere visibili fenomeni psichici come l’attenzione, il ricordo, il flusso immaginativo, le coloriture emotive. Un film rimanda allo spettatore ciò che alla fine non è atro che il proprio processo percettivo.
Il regista e il terapeuta
Analogie sono riscontrabili anche tra il lavoro di un regista e quello di un terapeuta: entrambi cercano di rinarrare storie. Interessante a tal proposito la Tecnica della Moviola, uno strumento concettualizzato da Vittorio Guidano, impiegato in Psicoterapia Cognitiva.
Le forme di disagio psichico e i processi di cura diventano un serbatoio da cui il cinema attinge sin dagli albori: dal cortometraggio “Il sistema del dr Gondron e del prof. Plume” di Maurice Tourneur (1913) al procedimento narrativo dell’analessi che apre il film “Il gabinetto del dottor Caligari” di Robert Wiene (1920).
I problemi riguardanti la sfera mentale, per la loro struttura drammatica e scenica, contribuiscono ad arricchire la fabula. La scena di un paziente obbligato a un ricovero psichiatrico suscita compassione per il paziente e rancore verso il sanitario che usa mezzi coercitivi (trascurando che ciò che viene fatto è nell’interesse del paziente). Ma un paziente che “evade” da un ospedale psichiatrico induce terrore.
Il lato oscuro del disagio, dell’irrequietezza o della devitalizzazione suscita interesse, sorprende, commuove, spaventa, ci fa porre domande. A volte ci tranquillizza pensando che ciò che osserviamo è altro e non riguarda noi, sentendoci così al riparo.
Il ruolo del cinema nello stigma sulla salute mentale
Vista dagli occhi di un professionista la rappresentazione del disagio psichico al cinema, il più delle volte, è una caricatura piuttosto marcata che può sia informare che rafforzare lo stigma.
E’ pur vero che il compito di un regista non è quello di educare il pubblico ma piuttosto riuscire nell’intento di raggiungere più persone possibile, che si traduce poi nel maggior profitto economico.
Restano comunque delle riflessioni da fare. Da tempo gli organismi sanitari valorizzano l’educazione alla salute mentale cercando di ridurre gli ostacoli verso i percorsi di cura. Provano a informare in merito agli strumenti di cura e a migliorare la consapevolezza e accettazione della frequenza del disagio psichico a livello sociale.
Il cinema può influenzare l’atteggiamento del pubblico verso le differenti forme di disagio mentale molto più del contatto con le situazioni reali. L’occhio dello spettatore coincide con quello della cinepresa e così ci facciamo portare dove il regista ci conduce, distratti e assorbiti dalle vicende narrative.
La potenza del cinema è ben superiore agli altri mezzi di comunicazione nella costruzione di un’idea e non è semplice per lo spettatore individuare il limite tra una caricatura e una comprensione del fenomeno reale.
Le immagini proiettate hanno il privilegio di farci cogliere il punto di vista di chi ha un disagio mentale ma corrono anche il rischio di poter indurre, con l’esasperazione della drammaticità espressiva, distorsioni che riguardano pazienti e curanti.
Il disagio psichico nei pazienti
Ci sono film in cui lo scopo principale è descrivere un disturbo specifico, altri in cui si percepisce una problematica mentale che però è a margine della storia, senza che ci si sia bisogno di approfondirla.
In altri il disagio mentale viene citato per aumentare lo stato di tensione nello spettatore e diventa solo un pretesto per inserire temi che spaziano dall’erotismo, alla violenza o a fenomeni sovrannaturali.
In tutte le tipologie il processo attentivo dello spettatore può essere indirizzato verso sentimenti pietistici o di allarme, a prescindere dalla situazione presa in esame.
Le rappresentazioni cinematografiche del disagio psichico nel corso degli anni sono state influenzate dallo spirito del tempo per poi contribuire a modificarlo. La concezione colpevolistica del disturbo mentale di matrice pre-illuministica lo rappresenta non come una malattia ma come un qualcosa di magico, peccaminoso o indice di una debolezza morale.
Un approccio successivo, che potremmo considerare illuministico, rappresenta il disagio mentale come conseguenza di una malattia del corpo. Questo, in quanto tale, va curato, dando poco spazio alle componenti psicologiche e alle difficoltà esistenziali o interpersonali.
Con gli anni anche questa modalità rappresentativa viene superata inserendo elementi che fanno percepire il soggetto sofferente non diverso dal soggetto normale, con il quale condivide molte dinamiche intrapsichiche. Con sfumature sociologiche in cui il conflitto più che essere intrapsichico nasce da conflitti relazionali con l’altro o con il sistema sociale.
La rappresentazione cinematografica: aderenza alla realtà o finzione
E’ stato osservato che quanto più grave è il quadro clinico rappresentato tanto più è ridotta l’aderenza a ciò che si osserva nella realtà.
Il cinema, in prevalenza americano, ha prodotto molti stereotipi distanti dalla vita reale dei pazienti, familiari o curanti. Il Topos diventa lo spirito libero e ribelle, il maniaco omicida, la seduttrice seriale, l’illuminato, il sadico. Tutti temi interpretati in base a cause fantasiose contaminate da spirito romantico e senza mai fare cenno a riferimenti scientifici ed evidence based.
I vari disturbi rappresentati
Si è osservato che, quando si prova a descrivere un disturbo specifico, i disturbi meglio rappresentati riguardano i disturbi dell’umore, sia nella polarità depressiva che maniacale. I disturbi di ansia sono descritti in modo piuttosto attendibile anche se l’enfasi viene posta maggiormente sulle componenti comportamentali più che ai processi mentali.
Troviamo un’ampia descrizione di disturbi di personalità – i più rappresentati sono il disturbo narcisistico, dipendente, paranoide e borderline – dando risalto agli stili di condotta mal adattativi più che agli elementi costitutivi della struttura o a definire i disturbi col suo nome.
I disturbi psicotici sono i più difficili da rappresentare, i registi cedono alla tentazione della drammatizzazione scenica discostandosi tanto dal disturbo che si osserva nella pratica clinica. Tra i film da salvare in questo ambito inserirei sicuramente “Toto le hèros” di Jaco Van Dormael (1991) per la sua sobrietà e analisi del dialogo interno.
Quando il tema trattato riguarda le Dipendenze da Sostanze gli stereotipi abbondano: compare l’eroe tragicamente bello e dannato, lo spirito libero che si oppone alla società iperconformista, il tossicodipendente sadico e omicida o la macchietta da commedia umorisica.
Una riflessione interessante è che quando hanno fatto vedere a campioni di pazienti film rappresentanti il disturbo da cui erano affetti pochissimi si sono riconosciuti in esso. A conferma della distanza tra il racconto e i fatti.
I curanti
Anche le rappresentazioni dei curanti risentono delle mode descrittive che li distinguono in buoni o cattivi.
Dalle origini del cinema muto fino alla metà del XX secolo psicologi e psichiatri sono rappresentati come la sintesi tra un oracolo e un ciarlatano.
All’inizio dei primi anni 60 i curanti assumono una sfumatura maggiormente positiva attraverso la quale iniziava ad emergere il ruolo terapeutico che svolgevano e le difficoltà nell’esercitarlo. I fermenti sessantottini rivestono gli psicologi e psichiatri di un’aura negativa durata per tutti gli anni ‘70.
Gradualmente nei decenni successivi la figura dello psichiatra o psicologo viene demitizzatatata ma non abbastanza. Compare il curante premuroso che aiuta senza riferimenti scientifici, in maniera semplicistica. Ciò accade in particolar modo laddove viene rappresentato un trauma, risolto dalla semplice rievocazione catartica e dal sentimento di amore.
Col tempo acquistano rilevanza gli elementi eterogenei costitutivi della professionalità del terapeuta che inizia ad assumere tratti più umani e, in quanto umani, a volte anche con turbamenti, crisi personali o scelte difficili da fare in un lavoro impegnativo e carico di responsabilità.
In conclusione
Diamo per scontato che non vada generalizzato quanto scritto, riconoscendo che vi sono opere che si discostano dal trend medio.
Il tema della salute mentale nei film sarà ancora presente per molto tempo perché il tema offre lo spunto a una buona storia, aiuta a creare ambientazioni e stati emotivi che attirano lo spettatore il quale, per sua natura, è portato a considerare vero ciò che vede.
La realtà che vediamo in un film è sempre filtrata – ma è una questione trasversale presente in tutte le forme comunicative – e resta allo spettatore la capacità di osservare sempre con occhio critico, non trascurando mai il confine tra stereotipi e informazione.