La formulazione del caso rappresenta il punto di arrivo della prima fase della psicoterapia, relativa alla raccolta delle informazioni rispetto al problema lamentato dal paziente.
Si delinea, dunque, come un resoconto delle informazioni raccolte in fase di valutazione e come una bussola capace di orientare il successivo percorso terapeutico.
All’interno dell’approccio cognitivo comportamentale, la formulazione del caso è orientata ad individuare tutti quei fattori che determinano il mantenimento della sintomatologia. I fattori situazioni responsabili della sua comparsa e tutti quegli elementi che, storicamente, hanno predisposto l’individuo al rischio di sviluppare quella specifica psicopatologia.
Differenza tra diagnosi e formulazione
In base a quanto detto fino ad ora, è evidente come la formulazione del caso si distingua in modo marcato dalla diagnosi psicopatologica.
La principale differenza risiede nel fatto che, attraverso il processo diagnostico, il clinico raccoglie le informazioni riguardanti i segni ed i sintomi legati alla sofferenza, concentrandosi sulla domanda del “cosa” affligge il paziente.
Lo scopo ultimo della diagnosi è dunque quello di individuare le eventuali caratteristiche sintomatologiche che possono far confluire la condizione del paziente in un’etichetta diagnostica conosciuta.
Questo processo è fondamentale per dare indicazioni sul tipo di trattamento più opportuno e sulla sua prognosi. Serve a facilitare la comunicabilità, anche tra clinici, della situazione e normalizzare l’esperienza del paziente.
Limiti della diagnosi
Le domande a cui però la diagnosi non è un grado di fornire una risposta chiara sono relative al “come” quella particolare patologia si manifesta all’interno del funzionamento di quella specifica persona ed al “perché” si è instaurata.
Senza la risposta a questi due interrogativi risulta difficile pensare di poter strutturare un intervento terapeutico mirato ed efficace, correndo il rischio di “navigare a vista” nell’utilizzo delle tecniche psicoterapeutiche.
Un’attenta formulazione del caso è dunque fondamentale proprio per dar risposta al “come” ed al “perché” la persona che abbiamo di fronte manifesta quella specifica etichetta diagnostica.
La formulazione comportamentale come risposta al “come”
L’approccio comportamentale fornisce preziose informazioni circa gli elementi che contribuiscono a mantenere determinati sintomi, aiutando clinico e paziente a rispondere al quesito del “come” quella diagnosi si manifesta all’interno della quotidianità.
Il modello comportamentale, facendo riferimento ai principi dell’apprendimento, come le teorie del condizionamento classico ed operante, postula infatti che determinati comportamenti (nel caso della psicopatologia presumibilmente disfunzionali) si mantengano poiché in grado di generare, quantomeno nel breve termine, una riduzione della sofferenza.
Molto spesso, tuttavia, la messa in atto di tali comportamenti, sebbene venga rinforzata dalla temporanea diminuzione delle emozioni negative, di fatto, finisce per essere il principale fattore di mantenimento della sintomatologia poiché non permette di sperimentare soluzioni alternative e di correggere le credenze (irrazionali nel caso di psicopatologia) alla base della genesi dell’emozione negativa.
Non solo, in base ai principi della generalizzazione dell’apprendimento, nel corso del tempo, le emozioni spiacevoli e i conseguenti comportamenti volti ad arginarle, tenderanno ad espandersi verso stimoli simili, limitando sempre di più la libertà individuale e generando veri e propri circoli viziosi che, in ultima analisi, manterranno la sofferenza.
Un esempio clinico
Immaginiamo, ad esempio, l’ipotesi un cui una persona abbia un’irrazionale paura dei piccioni. Di fronte alla vista del volatile, per arginare l’emozione spiacevole, tenderà ad allontanarsi il più veloce possibile. Questo comportamento ridurrà la paura nel breve termine, ma non permetterà a quell’individuo di sperimentare che, a conti fatti, i piccioni non sono poi così pericolosi.
Con il passare del tempo, questa persona inizierà ad evitare sempre più luoghi dove è possibile incontrare questi volatili (limitazione della libertà), inizierà a perlustrare con una quota noteve di ansia anticipatoria gli ambienti allo scopo di rassicurarsi che non vi siano piccioni (monitoraggio ed attenzione selettiva) e, successivamente, tenderà ad evitare anche altri tipi di uccelli (generalizzazione).
La raccolta minuziosa delle informazioni relative al “cosa” l’individuo fa per evitare o ridurre le emozioni negative a breve termine e la conseguente individuazione dei circoli viziosi di mantenimento della sofferenza risponde alla domanda del “come” la persona soffre di quel disturbo.
Da un punto di vista terapeutico, inoltre, è di fondamentale importanza per poter agire nel qui ed ora attraverso un intervento che porti la persona a disinvestire da tali comportamenti. Questo con l’obiettivo di generare nuovi apprendimenti, più funzionali, e poter modificare quelle credenze irrazionali che per prime hanno generato l’emozione spiacevole e che da tali comportamenti vengono rinforzate.
La formulazione cognitiva come risposta al “perché”
Parlando della formulazione comportamentale, abbiamo parlato della presenza di credenze irrazionali che, in prima battuta, generano una risposta emotiva negativa di fronte a stimoli neutri.
L’indagine circa il contenuto e l’origine di tali credenze è compito della valutazione e della formulazione cognitiva del caso.
La teoria cognitiva postula infatti che la sofferenza derivi dalla relazione tra due tipologie di credenze che gli esseri umani sviluppano nel corso della propria storia. Tali credenze, nel caso di psicopatologia o sofferenza psicologica, assumono frequentemente le caratteristiche di irrazionalità ed inflessibilità.
Le due tipologie di credenze originano dalle esperienze di vita, spesso precoci, e vengono chiamate rispettivamente credenze di base e credenze intermedie.
Credenze di base
Le credenze di base rappresentano dei contenuti con cui l’individuo rappresenta internamente e descrive sé stesso, gli altri ed il mondo. Nel caso di psicopatologia le credenze di base sono tendenzialmente negative.
In base agli studi di Aaron Beck, padre della terapia cognitiva classica, le credenze di base ruotano intorno a tre nuclei fondamentali:
- la non amabilità (io non degno di amore/altri rifiutanti, disinteressati)
- il non valore (io indegno/altri critici)
- l’inadeguatezza (io incapace, inadeguato, debole /altri svalutanti, umilianti).
Credenze intermedie
In risposta a tali credenze, molto dolorose, nel corso del tempo l’individuo genera le credenze intermedie. Esse rappresentano delle regole che, se soddisfatte, sono in grado di disattivare i contenuti nucleari dolorosi delle credenze di base.
Le credenze intermedie assumono di frequente la forma di assunzioni e generano degli scopi di vita. Nel caso in cui sopraggiungano dei fattori di scompenso (specifiche situazioni o contesti di vita che mettono a rischio la possibilità di aderire agli scopi) questi possono venir sovra-investiti, diventando patogeni.
L’esempio clinico
Tornando all’esempio dell’ornitofobia, in via ipotetica, l’individuo che sviluppa tale paura, nel corso della sua infanzia, potrebbe essersi trovato di fronte a pericoli esterni (mondo pericoloso) in presenza di persone di riferimento non in grado di coltivare in lui/lei il senso di autonomia e capacità di fronteggiamento delle emozioni negative.
Tali eseperienze, a loro volta, avrebbero potuto generare una rappresentazione interna di sé come profondamente vulnerabile e debole (io inadeguato).
Allo scopo di disattivare le proprie credenze di base, profondamente dolorose, questa persona avrebbe potuto generare delle credenze intermedie del tipo: “se mi proteggo dai pericoli, allora sono adeguato”, “Se non provo paura, allora sono forte”. Con il conseguente scopo di non esporsi mai ai pericoli e non provare mai paura.
In questo contesto, la sua irrazionale paura dei piccioni potrebbe essersi generata a seguito di un evento che lo ha sensibilizzato su questo specifico tema mettendo a rischio la possibilità di aderire allo scopo sovra-investito di non esporsi ai pericoli e di non provare paura. Ad esempio l’aver letto un articolo in cui ne viene descritta la pericolosità in termini di veicolo di malattie, o l’essersi spaventato a seguito del volo improvviso ed inaspettato dei piccioni in piazza San Marco a Venezia.
Il ruolo delle credenze
Come risulta evidente, l’individuazione degli elementi di vita, delle credenze di base e di quelle intermedie, nonché di eventuali fattori di scompenso è di fondamentale importanza per capire perché quella particolare persona ha sviluppato quel particolare tipo di disturbo psicologico.
Non solo, conoscere le origini della sofferenza può orientare il percorso terapeutico verso l’utilizzo di opportune strategie volte a ristrutturare le credenze irrazionali che generano emozioni negative, a disinvestire dagli scopi patogeni e, in ultima analisi, a rendere le immagini nucleari di sé, degli altri e del mondo più flessibili, realistiche e, conseguentemente, meno dolorose.
Condivisione ed utilità della formulazione del caso
La formulazione cognitivo comportamentale del caso, dunque, rappresenta il resoconto dell’assessment comportamentale e cognitivo ed è in grado di evidenziare i fattori di mantenimento della sintomatologia e quelli prossimali e distali che l’hanno generata.
È importante evidenziare come la raccolta di queste informazioni e la loro concettualizzazione all’interno di un profilo di funzionamento della persona, oltre a rappresentare un ingrediente fondamentale per la programmazione del trattamento, possa già di per sé rappresentare un intervento terapeutico e normalizzante per il paziente.
Condividere la formulazione, inoltre, contribuisce a rendere la persona consapevole del razionale terapeutico e dei motivi per cui verranno utilizzate determinante tecniche piuttosto che altre. Motiva così alla terapia e rende la persona agente attivo del proprio cambiamento.
Bibliografia
- Beck, J. (2022). La Terapia cognitivo-comportamentale. Casa Editrice Astrolabio.