Cos’è la solitudine
Proviamo ad analizzare la solitudine come entità discreta. Evitiamo di fare riferimento alle teorie che nel corso dei secoli hanno affrontato il tema dell’impossibilità dell’uomo a entrare in contatto con i suoi simili. O le prospettive che considerano la solitudine una conseguenza di altre problematiche psichiche.
Una prima riflessione interessante da cui partire è che il contrario di solitudine non è compagnia. Ci si può sentire soli anche stando fra tanta gente – ma senza senso di intimità e vicinanza.
Proveremo a fare riferimento alla solitudine come sensazione percepita e al dolore che ne deriva.
La funzione della socialità
Sul pianeta gli uomini sono sopravvissuti, senza ombra di dubbio, in quanto creature sociali.
Socialità ha sempre voluto dire sopravvivenza: l’uomo, una volta imparato a governare il mondo animale e vegetale, subito si rese conto che capire le intenzioni dei propri simili poteva portare ad alleanze e protezioni. Di contro non comprendere la situazione sociale poteva essere più pericoloso di un predatore.
Al senso di sicurezza si aggiunse anche la sensazione di piacere che deriva dallo scambio con l’altro. Tuttora elementi che contribuiscono maggiormente al raggiungimento della felicità riguardano dimensioni non solitarie: l’amore, l’intimità, il senso di appartenenza a qualcosa. Vi sono studi che dimostrano come quest’ultimo sia un fattore protettivo dall’ideazione suicidaria.
La sensibilità soggettiva alla disconnessione sociale
La macchina Uomo è strutturata fisiologicamente per avere schemi innati che stabiliscono i livelli di connessione sociale e i livelli di sensibilità all’esclusione. La componente genetica che determina il bisogno di connessione sociale non costituisce quella che sarà poi l’esperienza soggettiva della solitudine.
Individui con bassi standard di connessione e bassa sensibilità all’esclusione sociale difficilmente vivono come problema l’essere più o meno in collegamento con gli altri. All’estremo opposto troviamo persone con alti standard di connessione e grande propensione al dolore quando questi non sono soddisfatti.
Chi è sensibile all’esclusione sociale può essere socialmente appagato e chi ha scarso bisogno di rapporti può essere solo, non è questo il problema. Il dolore si attiva quando vi è una divergenza tra la connessione sociale desiderata e il livello di contatti fornito dall’ambiente.
La sensazione di solitudine ai nostri tempi
La sensazione diffusa è che il senso di solitudine sta aumentando vertiginosamente nelle nostre società degli ultimi anni.
Perché e in che modo ci siamo arrivati? Non vi è una risposta univoca, ma ci sono vari fattori che hanno influito. Lo sviluppo di un’urbanistica priva di spazi aggregativi e di condivisione sociale. La rapida introduzione di strumenti di comunicazione che ci hanno trovati impreparati ad una riflessione sul loro uso e a scongiurare gli effetti collaterali. L’esasperazione di una cultura narcisistica. Modelli che fanno ritenere una vita degna di essere vissuta solo se si riempie di attività. La produzione letteraria e cinematografica che considera l’eroe meritevole di tale nome solo a patto che operi in modo solitario. Sicuramente ciò e molto altro, in un aggrovigliamento complesso.
Un po’ alla volta, senza accorgersene e non immaginando i rischi, le società hanno fatto regredire la necessità di socialità da un bisogno vitale a un fattore accessorio.
Il dolore derivante dalla solitudine
La solitudine fa tanto male, genera dolore e non è solo una metafora. Gli studi di neuroimaging hanno osservato che quando avvertiamo il dolore della solitudine si attiva un’area emotiva, denominata regione del cingolo anteriore dorsale, che è la medesima che registra le risposte emotive al dolore fisico.
Il sentimento di solitudine e il dolore fisico condividono molti circuiti neuronali. Funzionano peggio anche le aree cerebrali deputate al senso di gratificazione e ricompensa.
Per fare un esempio, normalmente quando osserviamo un volto felice si attivano alcune regioni cerebrali che generano piacere. Nei soggetti che soffrono di solitudine questo tipo di risposta è indebolita. Il cervello reagisce in maniera più marcata agli eventi negativi e genera minor soddisfazione per ciò che di positivo accade.
Come il dolore fisico – la cui funzione è di allontanarci dai pericoli fisici – il dolore sociale (che chiamiamo solitudine) si è evoluto nella specie umana come meccanismo di protezione. Serve a scongiurare i pericoli derivanti dal rimanere isolato.
Il dolore fisico ci spinge a un cambiamento di condotta – ad esempio allontanare la mano da un oggetto acuminato – la solitudine percepita ci stimola a cercare la vicinanza. Accadeva nell’uomo primitivo e accade in quello moderno: le epoche cambiano ma la struttura cerebrale rimane la stessa.
Quando la solitudine crea danni psicologici
Sentimenti di solitudine occasionali non lasciano segni negativi particolari, sono fisiologici e aiutano lo sviluppo della persona.
Superato però un certo limite non consentono più alcun livello di crescita; ad aumentare saranno solo i livelli di stress e gli effetti negativi di questo.
Non riuscire a incontrare i propri simili determina una profonda ferita che intacca l’organismo dal punto di vista fisiologico. L’effetto fisico è paragonabile a quello determinato dall’ipertensione, dalla sedentarietà, dall’obesità e dal fumo.
Gli ormoni dello stress compromettono la funzione immunitaria e cardiovascolare a cui si aggiungono condotte che trascurano sempre più uno stile di vita sano.
Dal punto di vista psicologico la permanenza dell’isolamento porta a cicli di sensazioni, pensieri e condotte negative che si auto-rinforzano e purtroppo conducono proprio verso l’emarginazione che si sta cercando in tutti i modi di evitare.
La perdita delle capacità relazionali
Non è sempre vero che chi esperisce stati continuativi di solitudine abbia meno capacità relazionali degli altri. E’ molto più probabile invece che non le riesca a utilizzare, finendo progressivamente col perdere anche quelle che aveva.
Un po’ alla volta si alimenta un atteggiamento ipercritico e insoddisfatto verso tutto e verso sé. La persona che si vive sola tenderà ad attribuire a sé i fallimenti e a ragioni fortuite i successi; nessun dato di realtà riuscirà a scalfire tale convinzione profonda.
Progressivamente si alterano sempre più le capacità di auto-regolazione. Cosa vuol dire autoregolazione? La capacità ad esempio di escludere i pensieri distraenti o scollegati dal contesto invece di concentrarsi sull’interazione in atto.
Riuscire a focalizzare l’attenzione sugli aspetti utili al raggiungimento dei nostri scopi, escludendo dalla mente quelli irrilevanti o controproducenti, è un’abilità indispensabile in tutti i campi. Viene compromessa anche la cognizione sociale con la perdita della corretta decodifica dell’altro, del suo punto di vista, delle sue intenzioni e dei i segnali espressivi del corpo.
Le sensazioni di minaccia
Le sensazioni di sentirsi minacciato e impaurito prendono sempre più campo. Proprio come faceva il nostro antenato della savana, chi si sente solo e isolato attiva in automatico la scansione a lungo raggio dell’ambiente circostante per intercettare ogni possibile pericolo e trovare una protezione.
Questo atteggiamento adottato in un contesto sociale impedisce di cogliere le informazioni utili sulla qualità del contatto interpersonale in atto e non permette di acquisire quel bagaglio esperienziale necessario a inviare segnali sociali sintonici verso l’ambiente.
Solitudine e depressione
Giorno dopo giorno questo protrarsi di sensazioni spiacevoli crea i presupposti per l’insorgenza di stati depressivi. Chiariamo subito e a scanso di equivoci: solitudine e depressione sono due costrutti differenti. Se la solitudine descrive come ci sentiamo nelle relazioni con gli altri, la depressione definisce come ci sentiamo, punto.
Il senso di solitudine nasce in origine come un segnale che ci spinge a fare un passo verso l’altro; la depressione al contrario ci trattiene.
Ciò che condivide la solitudine con gli stati depressivi lo stile di coping passivo: nonostante il dolore avvertito vi è la tendenza a fare sempre meno e a non strutturare risposte efficaci.
Non è difficile comprendere come tentare più volte di raggiungere un obiettivo e non riuscirci porti a tirare i remi in barca; ci siamo passati un po’ tutti almeno una volta nella vita. Si affievolisce l’impegno attivo in prima persona e la ricerca di supporto emotivo e pratico dagli altri. E’ proprio questa tendenza spontanea, questa trappola, che dobbiamo contrastare.
Cosa fare?
Una delle prime nozioni che si apprendono nelle scuole di specializzazione cognitivo comportamentale è che la maggior parte dei meccanismi mentali si apprendono.
A nostra insaputa impariamo un po’ alla volta a costruire relazioni valide o a ritirarci socialmente. Nel fornire, o fornirsi, aiuto dobbiamo avere come obiettivo il cambiamento dei nostri schemi di pensiero e dei comportamenti.
Non serve a nulla continuare a ripeterci che ci sentiamo soli: se la solitudine è sete di rapporti sociali non la soddisfiamo concentrandoci sempre più sul senso di sete che proviamo.
Dobbiamo imparare a intercettare le sensazioni di minaccia che si attivano quando incontriamo qualcuno o immaginiamo di farlo e provare a gestirle un po’ alla volta fino a disattivarle.
Esporsi gradualmente a queste sensazioni spiacevoli – non evitandole – aiuta a fare piccoli passi avanti: è un dato certo, bisogna solo provarci!
Iniziamo così a cogliere nuove esperienze sull’ interazione con l’altro e a costruire un senso di curiosità per come noi mandiamo i messaggi, evitando di anticipare la scena in modo stereotipato.
Non concentriamoci su come l’altro guarda noi, mettiamo invece a fuoco il modo in cui noi guardiamo l’altro. Impariamo a considerare l’altro come un essere umano che può trovarsi in una situazione analoga alla nostra.
Proviamo a contenere la tendenza ad attribuire all’altro stati mentali di cui in realtà non sappiamo nulla o per lo meno non è detto che siano gli stessi che noi immaginiamo. Accettare che l’altro possa avere credenze, intenzioni, emozioni e conoscenze diverse dalle nostre è alla base di una buona Teoria della Mente, non significa che non ci siano allora presupposti di interazione.
Sfruttare il bisogno di connessione sociale
Il bisogno di connessione sociale non va inteso come il lubrificante per gli ingranaggi di un motore ma parte del motore stesso; un elemento costitutivo della struttura umana.
Sappiamo bene che non è semplice risolvere la questione quando ci sono di mezzo le relazioni sociali: se proviamo una sensazione spiacevole (fame, sete) esistono condotte in grado di estinguerle.
Quando a creare malessere è il senso di solitudine la risposta più ovvia sarebbe quella di creare un legame, bisogna però trovare qualcuno disposto a entrare in relazione con noi.
L’aspettativa più realistica sarebbe iniziare a nutrire i rapporti che abbiamo, anche quelli apparentemente poco significativi. Provare a inviare dovunque ci troviamo piccoli segnali pro sociali: un sorriso, un cenno che possa far capire all’altro: “Ti ho percepito e sono stato percepito” anche se per un attimo.
Ricordiamoci che l’errore più ingenuo è pensare “Io sono di qua, l’altro di là”. Non esiste un dentro e un fuori, una mente e un corpo. Il mondo è fatto di connessioni e rapporti, non di “cose in sé”.
Lo sanno bene le filosofie orientali, la Fisica e l’Informatica. Può essere utile tenerlo presente come punto di partenza per iniziare a costruire una realtà più ricca di significati sociali che ci aiutino a sentirci un po’ meno soli.
Bibliografia
Si rimanda ai lavori di John T. Cacioppo