Il Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) è il risultato dell’esposizione a esperienze che hanno implicato morte. O comunque una minaccia all’integrità fisica propria o altrui, in cui la persona ha provato una risposta di paura e impotenza. In conseguenza dell’evento la persona:
- sperimenta sintomi intrusivi correlati all’evento, per esempio incubi o flashback;
- tende a evitare tutto ciò che è connesso all’evento traumatico sia in termini di pensieri, ricordi come pure luoghi o persone;
- manifesta alterazioni dell’arousal come difficoltà ad addormentarsi, irritabilità, ipervigilanza;
- infine, presenta alterazioni negative di pensieri ed emozioni associate all’evento con conseguenti cognizioni negative su se stessi, sugli altri e sul mondo.
PTSD: il disturbo del ricordo
Secondo il modello di elaborazione adattiva dell’informazione (AIP, Shapiro 2000) le risposte biochimiche innescate per fronteggiare l’evento traumatico bloccano il sistema innato del cervello di elaborazione delle informazioni. Lasciano quindi isolate le informazioni connesse al trauma, intrappolate in una rete neurale con le stesse emozioni, convinzioni e sensazioni fisiche che si erano attivate al momento dell’evento.
In tal senso l’esperienza risulta non elaborata, restando immagazzinata così come è stata vissuta, e non è integrata con il resto delle esperienze.
Ciò che caratterizza il PTSD è il continuare ad avere le stesse reazioni disadattive, pur a distanza di tempo, come se la persona continuasse a rivivere l’evento nel momento presente.
Essendo l’evento qualcosa che è già successo non è più dunque l’evento in sé che sta disturbando la persona, quanto piuttosto il ricordo dell’evento. Vale a dire come l’evento è rimasto immagazzinato con i pensieri, le emozioni, le sensazioni fisiche sperimentate al momento in cui il trauma è accaduto.
I trattamenti del disturbo da stress post traumatico
La psicoterapia non può certo cambiare la storia del paziente o aiutarlo a cancellare l’evento dalla memoria, quanto permettere una riorganizzazione dell’evento traumatico all’interno delle reti neurali in modo tale che quell’evento non disturbi più e anzi possa trasformarsi in un’esperienza di crescita post-traumatica.
I trattamenti evidence-based per il PTSD, come ad esempio la terapia EMDR (Shapiro, 2000) e il trattamento di esposizione prolungata (Foa, Hembree & Rothbaum, 2007), perseguono questo obiettivo esponendo i pazienti proprio a quegli eventi traumatici fonte di terrore e orrore.
Talvolta l’esposizione al materiale traumatico può essere ‘troppo’ per la persona perché attiva una reazione fisiologica che supera la capacità di tolleranza da parte del soggetto.
Per questo motivo ricercatori e clinici hanno iniziato a studiare se specifici farmaci possano intervenire nel facilitare i pazienti ad accedere alle esperienze traumatiche senza sentirsi soverchiati.
L’ecstasy può aumentare la finestra di tolleranza?
La parola ecstasy evoca subito alla mente immagini di giovani ai rave party che utilizzano la droga a uso ricreativo eppure il composto chimico 3,4-metilendiossimetamfetamina (MDMA). Vale a dire la sostanza psicoattiva alla base dell’ecstasy. Questa sta guadagnando credibilità come potenziale trattamento integrativo per i pazienti che hanno subito gravi traumi.
In un recente articolo pubblicato sulla rivista Nature Medicine, Mitchell e collaboratori (2021) hanno dimostrato che tre dosi di MDMA, somministrate insieme a un trattamento di psicoterapia, nel corso di 18 settimane risultavano in una significativa diminuzione dei sintomi di disturbo da stress post-traumatico e in un miglioramento del funzionamento generale con una riduzione significativa della sintomatologia depressiva.
Questi dati illustrano il potenziale beneficio della psicoterapia combinata con MDMA rispetto alla farmacoterapia con sertralina e paroxetina (antidepressivi SSRI) che, come indicato dagli autori, risulta inefficace nel 40-60% dei casi di pazienti con disturbo da stress post-traumatico.
Lo studio recente
Lo studio di Mitchell et al. (2021), finanziato dalla Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies (MAPS), è uno studio multicentrico che ha avuto luogo in 15 siti diversi tra Stati Uniti, Canada e Israele. Ha incluso 91 pazienti con disturbo da stress post-traumatico grave e persistente, che sono stati randomizzati a ricevere o un trattamento con MDMA o un placebo insieme alla psicoterapia.
Né i partecipanti né i ricercatori sapevano a chi fosse stato somministrato il farmaco psicoattivo.
Al termine dello studio, il 67% dei pazienti che avevano ricevuto MDMA in combinazione con la psicoterapia non soddisfaceva più i criteri per il disturbo da stress post-traumatico. Rispetto al 32% di coloro che avevano ricevuto un placebo con la psicoterapia.
Inoltre è stato rilevato che l’88% dei pazienti nel braccio sperimentale (MDMA + psicoterapia) hanno avuto una riduzione significativa dei sintomi, mentre tale percentuale è scesa al 60% nel gruppo di controllo.
Essendo uno studio di fase III, rappresenta l’ultimo stadio della sperimentazione prima di ottenere l’approvazione per l’uso clinico. Si prevede infatti che la Food and Drug Administration degli Stati Uniti approverà la psicoterapia assistita da MDMA entro il 2023.
Qual è il contributo dell’MDMA alla psicoterapia?
L’idea che le droghe psichedeliche e la psicoterapia lavorino in sinergia solleva questioni complesse su come ottimizzare l’utilizzo di una sostanza psicoattiva.
Man mano che l’MDMA, e altri composti psichedelici strettamente controllati, si avvicinano all’approvazione normativa, un’attenta supervisione da parte dei terapeuti può aiutare a superare la loro reputazione di sostanze illecite e i timori di un uso indiscriminato.
Non è ancora del tutto chiaro come funzioni l’MDMA sul cervello. I pazienti con PTSD si caratterizzano per una iperattività dell’amigdala (l’area del cervello coinvolta nella paura) e un’attività ridotta della corteccia prefrontale. Come pure dell’ippocampo, vale a dire la regione del cervello in cui sono conservati i ricordi a lungo termine.
L’MDMA sembra indurre una serie di cambiamenti nel cervello riducendo l’attività dell’amigdala, aumentando l’attività della corteccia prefrontale e incrementando le connessioni tra l’amigdala e l’ippocampo al fine di lasciare i ricordi traumatici del passato nella memoria a lungo termine.
Il farmaco psicoattivo inoltre aumenta le sostanze chimiche come la serotonina e l’ossitocina e ciò può portare a uno stato caratterizzato da un maggiore senso di sicurezza e connessione sociale, oltre ad aumentare la compassione verso di sé.
Come funziona l’MDMA nel trattamento del PTSD
L’ipotesi clinica è che le proprietà farmacologiche dell’MDMA, se associate con la psicoterapia, possano generare una finestra di tolleranza sufficientemente ampia da permettere ai partecipanti di ripensare e riprocessare il materiale traumatico senza sentirsi sopraffatti o ostacolati dalla disregolazione emotiva, sia in termini di iperattivazione che di ipoattivazione.
La terapia con MDMA può infatti facilitare l’accesso alle memorie traumatiche con maggiore autocompassione e con ridotti livelli di rabbia e vergogna.
Inoltre gli effetti interpersonali e prosociali dell’MDMA possono sostenere la qualità dell’alleanza terapeutica, un importante fattore connesso all’aderenza al trattamento e quindi al risultato terapeutico.
In sintesi dunque l’MDMA potrebbe essere un facilitatore del trattamento psicoterapeutico dal momento che permette un accesso al materiale traumatico a coloro che lo sperimenterebbero come ‘troppo’.
L’MDMA non è una panacea
È indubbio che questi risultati abbiano suscitato un profondo interesse da parte della comunità scientifica e dell’opinione pubblica e siano stati accolti anche con grande entusiasmo da una parte di essa.
Addirittura Barbara Rothbaum, psicologa clinica presso la Emory University, ha parlato di un nuovo zeitgeist in psichiatria.
La ricerca offre sicuramente una nuova direzione e questi sviluppi possono essere molto interessanti nel considerare l’MDMA un candidato promettente nel trattamento del disturbo da stress post-traumatico.
Il legittimo scetticismo
Ciononostante c’è un po’ di scetticismo nella comunità scientifica rispetto al considerare l’MDMA un trattamento rivoluzionario. Di seguito è opportuno infatti indicare tutta una serie di criticità dello studio di Mitchell e coll. (2021) che ci allontanano, al momento, dall’idea di una panacea per il PTSD:
- I risultati dello studio si basano solo su 91 persone e così avremmo bisogno di studi con campioni molto più numerosi al fine di confermare quanto emerso.
- Essendo un campione autoselezionato (i pazienti infatti hanno scelto volontariamente di partecipare allo studio), potrebbe non essere rappresentativo di tutti i sopravvissuti al trauma. I pazienti che si sono offerti volontari per prendere parte allo studio avevano probabilmente un interesse esistente per il farmaco e, sebbene lo studio abbia utilizzato un gruppo placebo per aiutare a correggere l’effetto delle aspettative positive, potrebbe essere difficile riuscire a rendere ‘cieco’ qualcuno sul fatto che gli sia stato somministrato un farmaco come l’MDMA.
- Un’altra considerazione ha a che vedere con il fatto che la psicoterapia manualizzata nello studio non rappresenta uno degli approcci di psicoterapia riconosciuti come evidence-based nel trattamento del PTSD. Ciò rende difficile dire se la psicoterapia associata con MDMA funzioni meglio della sola psicoterapia focalizzata sul trauma. A tal proposito, sarebbe interessante poter testare l’MDMA insieme a psicoterapie di evidenza riconosciuta per il PTSD, come ad esempio la terapia EMDR (Shapiro, 2000) o il trattamento di esposizione prolungata (Foa et al., 2007).
- Infine c’è una grande differenza tra uno studio di ricerca altamente controllato con un numero limitato di partecipanti e le complessità del lavoro clinico reale. Ad esempio, molte condizioni psichiatriche o mediche che molti pazienti hanno sono escluse dagli studi clinici.
Conclusioni
In conclusione, sebbene l’MDMA non possa essere definita la cura per il PTSD, resta comunque il dato incontrovertibile di efficacia del trattamento di psicoterapia insieme all’MDMA e questo risultato sostiene la crescente convinzione che i farmaci che producono effetti psichedelici abbiano un potenziale reale nel trattamento di gravi disturbi psicopatologici.
Bibliografia
- Foa E. B, Hembree, E. A., & Rothbaum, B. O. (2007). Prolonged exposure therapy for PTSD: Emotional processing of traumatic experiences: Therapist guide. Oxford University Press.
- Mitchell, J. M., Bogenschutz, M., Lilienstein, A. et al. (2021). MDMA-assisted therapy for severe PTSD: a randomized, double-blind, placebo-controlled phase 3 study. Nature Medicine, 27, 1025–1033.
- Shapiro, F. (2000). EMDR, desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari. Milano: McGraw-Hill.