Tutti nell’arco della nostra vita sperimentiamo dubbi su ciò che ci piace, sul proprio valore personale o su ciò che vogliamo veramente fare in un determinato momento. Questo è normale, sano e dipende dalla combinazione tra come regoliamo le nostre scelte in quel momento e la nostra identità.
D’altra parte la costruzione di un senso di sé stabile e coerente inizia già dalla prima infanzia e prosegue nel periodo adolescenziale, dove è centrale il processo di separazione-individuazione dalle figure genitoriali e/o di ricontrattazione (Pietropolli Charmet, 2005).
L’adolescenza costituisce una fase critica per la formazione della propria identità, intesa come insieme di scopi, desideri, passioni e modalità stabili di approccio ai dati della realtà. Implica pervenire ad un sé stabile, coerente rispetto al passato e proiettato nel futuro.
Quando tale processo viene interrotto da esperienze di vita sfavorevoli, è possibile che la persona sperimenti un’insicurezza di fondo, del proprio valore personale e un senso di ambivalenza. Di seguito alcune possibili cause.
Le possibili cause dell’instabilità nell’immagine di sé
- Il criticismo genitoriale può portare il bambino a mettere in discussione il suo valore personale, in quanto essendo costantemente messo in dubbio rispetto ai propri desideri, scopi e passioni non riesce a costruire un’immagine stabile e accurata di chi è veramente o di cosa gli piace.
- L’adultizzazione che i genitori possono richiedere al figlio può portare alla mancata possibilità di costruzione di un sé coerente. Il bambino abituato a sacrificarsi e a prendersi cura dell’altro perde quello “stupore infantile” che gli permette di seguire le proprie passioni.
- Anche genitori invischianti, che sostituiscono i propri desideri a quelli del figlio, non permettono la costruzione di un’identità stabile. Il bambino fa propri i desideri di colui da cui dipende, perché rifiutarlo potrebbe portare al rischio di disprezzo o abbandono. Per esemplificare, genitori che hanno dovuto abbandonare l’università dei loro sogni a causa di padri o madri altrettanto severi, possono spingere (più o meno indirettamente) i figli a fare scelte che portino al loro appagamento personale, senza tenere conto di ciò che piace veramente al ragazzo. I figli accettano, in quanto è meglio sacrificare i propri desideri che deludere le aspettative genitoriali.
- Anche un sistema familiare in cui vi è un messaggio morale rigido, non aiuta allo sviluppo di un buon senso di sé. Se devo essere sempre bravo e buono, ogni volta che sbaglio o solamente penso a qualcosa di “cattivo”, vuol dire che non vado bene e il mio valore personale viene messo in discussione. Inoltre chi sono io? Sono il bambino buono o cattivo?
Self-ambivalence
Il termine self-ambivalence (ambivalenza del sé) (Guidano e Liotti, 1983) introduce l’idea che un individuo può non avere un concreto e stabile senso di sé.
La persona si pone domande che possono riguardare scelte banali come l’acquisto di un capo di abbigliamento o più complesse come la scelta dell’università: “ho fatto bene a prendere questo maglione?”, “mi piace veramente ingegneria gestionale?”, “cosa desidero veramente?”, “mi piace passare del tempo con quel gruppo di persone?”.
Parte dei dubbi sono legati alla scarsa conoscenza di sé, ma un’altra parte deriva dal timore che fare la scelta sbagliata porterebbe a sentirsi una persona inadeguata (quindi giudicabile) e/o “cattiva”.
Fear of self
Infatti la self ambivalence è spesso correlato ad un altro costrutto definito “fear of self”, recentemente ripresa e descritta da alcuni autori come l’idea di un “sé” che l’individuo teme di diventare (Aardema et al., 2013).
Ogni persona in base alla sua storia di vita può temere di diventare in un certo modo, per lui fonte di dolore. Ad esempio, coloro che hanno vissuto in un ambiente molto religioso, in cui le regole morali erano rigide e andavano necessariamente rispettare, possono temere di diventare persone moralmente sbagliate.
È un’idea che si colloca vicino alla teoria della discrepanza del sé (Higgins, 1987), che afferma che la discrepanza tra sé reale (come la persona crede di essere) e sé ideale (come la persona sente che dovrebbe essere) è associata a “un’attivazione emotiva” come ad esempio paura o ansia elevate.
È comprensibile quindi, che quando vi è questa distinzione rigida, ogni azione, pensiero, dubbio relativo al sé, che si discosta dal sé ideale, possa diventare fonte di sofferenza, causando conseguenze problematiche e talvolta psicopatologiche.
Relazione con il disturbo ossessivo-compulsivo
Una delle conseguenze psicopatologiche maggiormente studiata e legata alla self ambivalence e alla fear of self è il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC), problematica caratterizzata da pensieri/dubbi/immagini intrusive (ossessioni) che vengono valutate come terribili dalla persona, causando risposte emotive elevate.
Per gestire tali reazioni l’individuo, nella maggior parte dei casi, mette in atto comportamenti (compulsioni) al fine di regolare lo stato emotivo, creando però un circolo vizioso che non lascia scampo e si allarga “a macchia d’olio”.
Secondo la World Health Organisation il DOC è tra i 10 disturbi maggiormente debilitanti che porta a un decremento della qualità di vita (Veale & Roberts, 2014) ed è anche per questo che ci sono numerosissime ricerche su tale patologia e sul motivo che può rendere una persona vulnerabile nello sviluppare il DOC.
Gli studiosi hanno identificato diversi modelli esplicativi, uno dei quali riguarda la relazione con i dubbi riguardo il sé. Allora ci possiamo chiedere: come un senso di sé instabile (self ambivalence) e un sé temuto (fear of self) possono essere alla base di tale disturbo?
Guidano e Liotti (1983) suggeriscono che individui che sono ambivalenti rispetto al proprio sé in termini di valore personale (“vado bene?”, “sono abbastanza?”), moralità (“sono una brava persona?”, “se mi comporto in questo modo potrei essere cattivo”) e amabilità (“sono amabile?) usano (ovviamente in modo inconsapevole) il perfezionismo e i comportamenti ossessivo compulsivi per ristabilire costantemente la loro autostima.
Per esempio, se mi sento insicuro rispetto al mio valore morale e sono terrorizzato dall’essere una cattiva persona, tenderò a comportarmi in modo irreprensibile o a scacciare qualsiasi pensiero che mette in dubbio la mia moralità.
Se succede qualcosa che, però, non posso controllare o entra qualche pensiero al di fuori della mia volontà, questo diventerà una minaccia e causerà elevata attivazione emotiva. E sarà a questo punto che userò le compulsioni per abbassare l’ansia o la paura, favorendo la strutturazione del disturbo.
Sembra quindi che i sintomi del DOC siano strumenti che offrono sollievo (sebbene temporaneo) dal senso di ambivalenza riguardo al sé. Le persone che soffrono di DOC possono avere questa “doppia visione di sé”, stato che porta la persona al bisogno di assoluta certezza (per capire quale delle due visioni è quella vera) e perfezionismo (per agire nel modo maggiormente conforme alla visione ritenuta positiva tra i due sé).
Ciò suggerisce che di fronte a un pensiero intrusivo normale, ma per il soggetto inaccettabile (“quella persona non la sopporto, l’ammazzerei!”), questo bisogno di certezza e perfezionismo offre l’ambiente ideale per lo sviluppo di ossessioni e compulsioni.
Se pensieri che abbiamo tutti attivano il timore di sé (ad esempio di essere una cattiva persona), essi diventano inaccettabili e la persona vi presterà attenzione cercando di neutralizzarli. Questo, come sappiamo, aumenta la frequenza di future intrusioni mentali.
Trattamento
Il trattamento d’elezione per il disturbo ossessivo compulsivo è la terapia cognitivo comportamentale, arricchita di tutti gli approcci di terza generazione di cui disponiamo oggi. Se alla base di tale disturbo vi sono dubbi relativi al sé e il timore di poter diventare come il sé temuto, sarebbe opportuno indirizzare la terapia su tali temi in modo da lavorare anche sul problema alla base.
A grandi linee il trattamento è così composto:
- bisogna che il paziente conosca il proprio disturbo, e cosa vi sta alla base, perché più conosciamo la nostra problematica meglio comprendiamo il perché di alcuni interventi e meglio la possiamo affrontare. Questa fase di psicoeducazione è perciò fondamentale.
- Successivamente interrompere i circoli viziosi del DOC tramite le tecniche di Esposizione e Prevenzione della Risposta (ERP) che consistono nell’esporre gradualmente la persona alle situazioni temute, al fine di favorire un’abituazione all’ansia o alla paura.
- E infine lavorare parallelamente sui temi profondi relativi alla self ambivalence e fear of self. Per fare ciò è importante, a partire dalla relazione terapeutica, permettere al paziente di costruire un’idea di sé stabile, ma al contempo flessibile.
Aiutare il paziente a capire cosa gli piace e cosa corrisponde ai suoi bisogni, desideri e passioni è fondamentale: l’uso del “marcatore somatico” (quando sentiamo fisicamente ed emotivamente che qualcosa ci piace o ci rappresenta) è la base da cui partire.
Permettere al paziente di integrare le due immagini di sé ambivalenti è un altro passaggio necessario, che favorisce flessibilità, accettazione e valorizzazione di sé.
Bibliografia
- Aardema, F. et al. (2013). Fear of self and obsessionality: Development and validation of the Fear of Self Questionnaire. Journal of Obsessive-Compulsive and Related Disorders 2(3):306–315
- Guidano, V.F., Liotti, G. (1983). Cognitive Processes and Emotional Disorders: A Structural Approach to Psychotherapy. Guilford Publications.
- Higgins, E. T. (1987). Self-discrepancy: A theory relating self and affect. Psychological Review, 94(3), 319–340.
- Pietropolli Charmet, G. (2005). Adolescenza. Istruzioni per l’uso. Fabbri editore.
- Veale, D., & Roberts, A. (2014). Obsessive-compulsive disorder. BMJ