La socialità e gli scambi interindividuali hanno rappresentato, per la razza umana, una spinta evolutiva che ha significato, insieme alla stessa sopravvivenza della specie, anche il suo esponenziale progresso.
Grazie a queste forme di interazione con i propri simili la società è cresciuta, i centri di aggregazione si sono fatti focus principale di condizioni di vita migliori e opportunità di sviluppo.
Ad oggi viviamo una socialità dove le possibilità e le modalità di interagire con l’altro si sono moltiplicate grazie alla tecnologia. Quest’ultima ha indubbiamente facilitato il nostro modo di rapportarsi con l’altro, allo stesso tempo l’ha sicuramente stravolto.
Interagire con un’entità finché rimane astratta, finché è rappresentata da una striscia di numeri e commenti, un like oppure un avatar non sembrerebbe rappresentare un problema quanto l’interagire con l’altro in carne ed ossa, contesto in cui emergono i lati più fragili e insicuri dell’odierna socialità.
Altro o altri?
Molti sono ad oggi i modi e le motivazioni con cui il rapportarsi con l’altro, o semplicemente la sua presenza, può essere considerata fonte di disagio e talvolta di paura e ansia.
I vari comportamenti di ritiro, isolamento ed evitamenti rispetto agli altri non possono però essere rimandati alla mera “paura dell’altro”. Risulta utile, per questo, portare l’attenzione sulle differenze sia individuali che culturali che ci caratterizzano.
Per approfondire la socialità e ciò che l’altro suscita in noi, non solo si deve considerare il contesto storico in cui siamo immersi, ma anche quello culturale.
La nozione di costruzioni del Sé (Self-construals) si riferisce a come gli individui percepiscono se stessi e le loro relazioni, se si considerano cioè principalmente separati dagli altri o integralmente connessi a essi (Markus e Kitayama 1991).
Coloro con un costrutto di Sé indipendente fanno degli attributi interni, come tratti caratteriali, abilità, valori e atteggiamenti il punto centrale per definire il loro senso di sé. Quelli con un’auto-costruzione interdipendente, al contrario, vedono come centrali le loro relazioni strette, i ruoli sociali e le appartenenze al gruppo.
Mentre i self-construals rappresentano differenze individuali, l’individualismo e il collettivismo sono condizioni culturali.
Questi termini, tuttavia, sono spesso usati in modo intercambiabile. L’auto-costruzione interdipendente è presente maggiormente nelle culture collettiviste in cui le persone tendono a dare la priorità al gruppo rispetto al sé.
Le culture dell’Asia orientale (ad esempio il Giappone) sono considerate il prototipo dell’autocostruzione interdipendente. Al contrario, quella indipendente si riscontra soprattutto nelle culture individualistiche, la cultura occidentale ne rappresenta un esempio proto tipico.
Tale distinzione tra individualismo e collettivismo è importante perché la cultura plasma in modo influente il punto di vista sul Sé delle persone. Allo stesso modo influisce sui timori suscitati nei suoi rappresentanti, al momento di rapportarsi con altri individui.
Alla luce di tali considerazioni, indaghiamo ora le numerose, possibili, differenti motivazioni che in ultima analisi che possono indurre negli individui la paura dell’altro.
Come?
Parlando di disturbi della socialità culturalmente contestualizzati, ce n’è uno che negli ultimi anni ha letteralmente fatto il giro del mondo e che merita attenzione.
Il ritiro e l’isolamento sociale sono due delle principali caratteristiche che definiscono individui con disagi sociali marcati, la paura delle persone innesca facilmente tali tipi di reazione. In realtà è sempre d’obbligo non lasciare niente all’interpretazione: le cause di una ridotta socialità potrebbero essere diverse.
Hikikomori, o ritiro sociale giovanile è diventata una delle questioni sociali più discusse in larga parte del mondo.
Il termine descrive individui che si sono ritirati dalla loro comunità. Le prime informazioni su tale fenomeno sottolineavano la stretta relazione della manifestazione clinica con la cultura locale, come suggerisce il nome infatti, tale parola giapponese è composta da due verbi che indicano l’atteggiamento di un individuo di “ritirarsi” (hiku) e “autoescludersi” (komoru).
Si caratterizza per lo stare a casa per la maggior parte della giornata, per l’assente e non ricercata partecipazione sociale (ad es. lavoro e scuola) e per la persistenza di tali condizioni per almeno 6 mesi (Saito 2010).
Un significativo deterioramento funzionale o disagio deve essere associato all’isolamento sociale (Kato et al.2019). L’attributo elementare di hikikomori è l’isolamento, l’elemento distintivo è l’auto-segregazione sociospaziale degli individui.
Questa forma di isolamento fisico si verifica tipicamente a casa, dove queste persone trascorrono la maggior parte della giornata evitando l’esposizione a qualsiasi forma di socializzazione (a scuola, centri sportivi e simili contesti di socializzazione) per giorni, settimane o mesi.
Le cause dell’hikikomori possono essere diverse. Sebbene non ne esista una categorizzazione esatta e corretta nel DSM-5, i medici e gli psichiatri affermano che alcune forme di hikikomori sono causate da disturbi psichiatrici come la schizofrenia (Kondo et al.2013), disturbi della personalità (Teo et al.2015), forme gravi di disturbo d’ansia sociale (Nagata et al.2013) o dipendenza da Internet (Wong 2009).
La tecnologia, è indubbiamente legata a doppio filo con tale disturbo, le vite virtuali parallele che gli hikikomori spesso vivono, sono al tempo stesso unica fonte di socialità e maggior elemento di mantenimento della patologia.
Essendosi ormai propagato in tutto il mondo, tale fenomeno potrebbe rimanere di difficile definizione, in quanto anche le stesse cause potrebbero dipendere largamente dal contesto culturale in cui si sviluppa. Potrebbe scaturire da una visione maggiormente collettivistica della società, dalla quale si decide di allontanarsi magari percependo la propria inutilità o mancanza di contributo, oppure isolarsi attivamente protegge l’individuo dall’affrontare l’altro, evento troppo stressante e potenzialmente pericoloso per la propria incolumità sociale.
La paura delle persone
L’antropofobia (letteralmente “paura delle persone”) è un altro disturbo fobico, segnalato principalmente in Cina e Giappone. Il sintomo principale è la paura di stabilire un contatto visivo con gli altri, ulteriori correlati includono la paura di arrossire, di avere delle espressioni facciali innaturali, avere uno sguardo strano, dismorfismo corporeo o ancora di avere un cattivo odore.
In casi estremi, una persona che soffre di antropofobia potrebbe trovarsi costretta a casa e ritirata dalla società per evitare qualsiasi contatto con altri esseri umani.
Zhong ha classificato i sintomi antropofobici in tre categorie sulla base di osservazioni cliniche. La prima riguarda i sintomi associati all’espressione degli occhi, inclusa la paura dello sguardo degli altri e la sensazione di innaturalezza del proprio. La seconda riguarda i sintomi associati all’espressione facciale, ossia la sensazione di avere espressioni inadeguate di fronte ad altri, infine, la terza, riguarda il desiderio compulsivo di guardare il seno o i genitali degli altri attraverso la propria visione periferica (Zhang & Zhong, 1993).
Tale costrutto psicopatologico è stato approfondito e meglio definito negli anni, lasciando il posto a un disturbo, o sindrome, che possiede numerosi aspetti sovrapponibili all’antropofobia, ma che ne descrive meglio le motivazioni includendo, oltre alla parte fisiologica e comportamentale, quella cognitiva e interpretativa. Il concetto di antropofobia è stato dunque abbandonato negli anni o, per meglio dire, si è evoluto.
La Sindrome del Taijin Kyofusho (TKS)
La Sindrome del Taijin Kyofusho (TKS) (taijin: in relazione agli altri, kyofusho: paura o fobia; vale a dire, paura degli altri) si è via via sovrapposta all’antropofobia, sino a soppiantarla.
È stata proposta per la prima volta da uno psichiatra giapponese negli anni ’20, da allora, è stato inclusa come categoria diagnostica per i pazienti giapponesi con Disturbo d’Ansia Sociale (DAS). Ne è infatti riconosciuta la componente socialfobica anche dai manuali più moderni (vedi DSM-5; APA, 2013 e ICD-10; Organizzazione Mondiale della Sanità, 1992).
Il Taijin Kyofusho è una sindrome culturale caratterizzata dall’ansia e dall’evitamento di situazioni interpersonali dovute al pensiero, alla sensazione o alla convinzione che il proprio aspetto e le proprie azioni nelle interazioni sociali siano inadeguati o offensivi per gli altri.
Le principali preoccupazioni includono l’arrossamento del viso (eritrofobia), l’odore del corpo (sindrome di riferimento olfattivo), lo sguardo inappropriato (troppo contatto oculare o troppo poco), espressione facciale rigida o goffa, movimenti del corpo (irrigidimento, tremore) o deformità del corpo (APA, 2013).
Sindromi simili si trovano in Corea e in altre società che pongono una forte enfasi sul mantenimento di un comportamento sociale appropriato nelle relazioni interpersonali gerarchiche.
Tale sindrome può risultare molto utile per illustrare al meglio le differenze dell’ “aver paura delle persone” in culture diverse.
Il disturbo d’ansia sociale
Il Taijin Kyofusho è una forma di ansia sociale legata, più comunemente, alle culture orientali, dove gli individui temono che i loro comportamenti, espressioni o caratteristiche fisiche possano offendere o far sentire gli altri a disagio (Kleinknecht et al., 1997).
Le persone con TKS mettono in atto evitamenti rispetto a situazioni sociali in cui possa essere coinvolto il contatto visivo o si possano notare disagi fisici come tremori, sudorazione e tensione muscolare.
Tuttavia, piuttosto che una preoccupazione di trovarsi in imbarazzo, gli individui con TKS temono di mettere in imbarazzo gli altri. In quanto tali, il Disturbo d’Ansia Sociale e la Sindrome del Taijin Kyofusho sono state descritte rispettivamente come manifestazioni di fobia sociale focalizzate rispettivamente sul Sé e sugli altri (Norasakkunkit et al., 2012).
I tassi di prevalenza di TKS si sono dimostrati più elevati nei paesi orientali rispetto ai paesi occidentali, che al contrario mostrano tassi maggiori di DAS (Essau et al., 2012; Vriends et al., 2013).
Come accennato in precedenza, una costruzione del Sé come indipendente riflette una propria rappresentazione che tende a enfatizzare la separatezza e l’unicità di un individuo, mentre una persona con un orientamento prevalentemente sociale del sé, interdipendente con gli altri, tende a enfatizzare la propria connessione e le proprie relazioni (Markus & Kitayama, 1991).
Pertanto, gli individui cresciuti in una cultura collettivistica avranno maggiori probabilità di credere che il proprio fallimento provocherebbe vergogna non solo su se stessi, ma anche sulla propria famiglia. Questi individui tenderanno a rivolgere la loro attenzione principalmente all’esterno e saranno più propensi a monitorare eccessivamente il loro ambiente alla ricerca di segnali che il loro comportamento possa danneggiare gli altri.
Al contrario, nei contesti culturali individualistici, dove le persone tendono a enfatizzare autocostruzioni più indipendenti, la caratteristica comune dell’ansia sociale è l’“auto-focalizzazione”, quindi caratterizzata da una tendenza all’eccessiva preoccupazione di mettersi in imbarazzo in situazioni sociali.
In questi casi l’individuo si rivolge selettivamente all’esterno per monitorare l’ambiente, alla ricerca di segnali sociali che possano indicare di aver fatto o meno una buona impressione all’altro.
Il Disturbo d’Ansia Sociale, infatti, può certamente essere considerato un’altra causa molto frequente del timore esperito verso le persone.
La sua caratteristica essenziale è una paura o ansia marcata di situazioni sociali in cui l’individuo può essere esaminato e valutato. Quando esposte a tali situazioni sociali, le persone che ne soffrono, temono di essere valutate negativamente.
Il giudizio temuto è quello di essere considerato ansioso, debole, pazzo, stupido, noioso, sporco o sgradevole. Si teme anche di comportarsi o di apparire in modo tale da mostrare sintomi di ansia, come arrossire, tremare, sudare.
Si tratta dunque del timore del giudizio espresso dall’altro in una qualsiasi situazione sociale in cui si abbia la possibilità di venire valutati. Ciò comporta le classiche performance scolastiche o sportive, ma anche situazioni molto più particolari.
Ciò che può essere messo sotto esame sono le caratteristiche più disparate, dall’adeguatezza nei comportamenti, alla profondità delle proprie opinioni fino all’apparenza fisica o estetica. Rispetto al TKS, in questo caso, dell’altro temiamo il giudizio negativo che potrebbe metterci in cattiva luce con il rischio di farci sentire esclusi.
L’individuo è al centro delle proprie preoccupazioni, l’altro diviene spesso un mero strumento di convalida o meno delle proprie rappresentazioni.
Il disturbo di panico con o senza agorafobia
Nel modo occidentale è molto diffusa un’altra possibile causa di distanziamento sociale e del timore generato dall’altro. Il disturbo di panico si verifica frequentemente con l’agorafobia, che si presenta con paura e ansia causate dall’essere in un luogo in cui è difficile ottenere aiuto o fuggire se si verifica un attacco di panico o un sintomo simile.
Con agorafobico si definisce non solo chi prova un estrema paura o ansia riguardo alla possibilità di utilizzare dei mezzi pubblici, essere in spazi aperti, trovarsi in luoghi chiusi; essere fuori casa da solo, ma anche stare in fila o essere in mezzo alla folla, ossia a contatto stretto con altre persone.
Queste situazioni quasi sempre inducono paura o ansia e sono spesso evitate. Recentemente, nel DSM-5, l’agorafobia è stata separata dal disturbo di panico come condizione indipendente. L’agorafobia può verificarsi senza sintomi di panico, non ne è sempre secondaria e ci sono differenze nella prevalenza, nel tasso di incidenza riguardo il genere e nei risultati del trattamento tra agorafobia e disturbo di panico.
Anche in questo caso l’altro viene vissuto in modo strumentale: funge infatti da compagno per affrontare sfide altrimenti inaffrontabili, e, allo stesso tempo, viene percepito come un ostacolo da cui preventivamente disingaggiarsi.
Il disturbo ossessivo compulsivo
Esistono dei disturbi che possono suscitare paura e timore dell’altro, anche al di là del contesto culturale. Basti pensare all’odierna situazione pandemica mondiale.
Coloro che soffrono di Disturbo Ossessivo – Compulsivo potrebbero, ad esempio, aver sviluppato specifici timori riguardo alla vicinanza dell’altro, temendone il contatto. Una delle ossessioni più diffuse infatti è la paura della contaminazione. Tipicamente la preoccupazione per la contaminazione si basa sulla paura di infettarsi o contrarre una malattia in seguito al contatto con qualcosa o qualcuno di “tossico”.
Poiché l’ossessione riguarda malattie, chi soffre di disturbo ossessivo compulsivo spesso percepisce un senso di responsabilità nel mantenere se stesso, e chi gli sta intorno, al sicuro. Questo purtroppo spesso sviluppa scontri per le eccessive richieste e talvolta diffidenza anche verso familiari.
La soglia psicopatologica del timore di contaminarsi, in questo contesto storico, si è indubbiamente innalzata, tuttavia per alcuni individui la sola presenza dell’altro, particolarmente in ambienti chiusi, può far scaturire un intenso timore.
La paranoia
Anche la paranoia può considerarsi causa culturalmente trasversale: implica intensi sentimenti e pensieri ansiosi o paurosi, spesso legati a persecuzioni, minacce o cospirazione.
L’altro è visto con estremo sospetto e trattato con diffidenza. La paranoia si verifica in molti disturbi mentali, ma è più spesso presente nei disturbi psicotici o in peculiari strutture di personalità.
Persone con alti livelli di pensiero paranoico possiedono un pregiudizio di attribuzione esternalizzante: una tendenza a spiegare gli eventi negativi nella loro vita incolpando gli altri piuttosto che riflettere sul proprio potenziale contributo alle circostanze (Bentall 2001, 2006).
Il normale pregiudizio egoistico, per cui gli eventi negativi sono attribuiti a circostanze esterne, è esagerato e distorto, diretto verso le altre persone e il loro presunto intento malevolo. Ci sono buone ragioni per considerare il ruolo dei processi di ansia sociale nella paranoia; sia la ricerca che la letteratura clinica indicano una significativa sovrapposizione tra le due presentazioni: persone con deliri persecutori possono sperimentare una cognizione sottostante tipicamente associata alla fobia sociale e comportarsi in modo simile in risposta alla minaccia sociale percepita (Newman & Stopa, 2013).
Quelle sopra elencate sono alcune tra le più comuni cause di sviluppare una paura verso le altre persone. La lista non può considerarsi ovviamente esauriente, molti altri possono essere i nuclei profondi che poi si manifestano con comportamenti di distanziamento e paura sociale. Tanto per citarne alcuni, tra i più importanti, vanno presi in considerazione eventi di vita significativi, come traumi, maltrattamenti, violenze e abusi.
Allo stesso modo non possiamo ignorare tratti caratteristici di varie personalità, oltre a quello descritto, così come le psicosi nelle sue varie forme.
Per questo, quando oggi parliamo di paura delle persone, non possiamo solo soffermarci sui comportamenti o asserzioni manifeste, ma necessitiamo di avvalerci di un’attenta indagine delle cause, in cui l’individualità delle persone rimane presupposto fondamentale, ma quest’ultima deve necessariamente essere accompagnata dalla considerazione dell’odierna contestualizzazione sia spaziale che temporale.
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