La bulimia nervosa ha un esordio tra i 12 e i 25 anni, anche se raggiunge il picco tra i 17 e 18 anni. Colpisce in modo prevalente le persone di sesso femminile. La maggior parte delle ricerche effettuate, suggeriscono che la bulimia sia più frequente oggi che in passato anche se non ne conosciamo esattamente il motivo.
In Italia, come in altri paesi occidentali, si registra un notevole aumento dei casi di bulimia che sembrano distribuirsi in modo omogeneo in tutte le classi sociali.
Come si riconosce una persona che soffre di bulimia?
Le persone bulimiche sono generalmente di peso normale. Alcune però possono essere lievemente sottopeso o lievemente sovrappeso, pochissime in grande sovrappeso.
Per avere una diagnosi di bulimia nervosa devono essere presenti le seguenti caratteristiche:
- Abbuffate ricorrenti dove si consuma una grande quantità di cibo e si ha la sensazione di perdere il controllo sull’atto di mangiare;
- Comportamenti di compenso (ad esempio vomito, lassativi, diuretici oppure esercizio fisico eccessivo e digiuno);
- Le abbuffate e i comportamenti di compenso devono verificarsi almeno 2 volte la settimana per 3 mesi;
- Preoccupazione estrema per il peso e le forme corporee (la loro autostima dipende da questi due fattori).
Cosa fare per aiutare una persona bulimica
Spesso chi soffre di bulimia si abbuffa in solitudine e in segreto per la forte vergogna. Frequentemente nessuno nella famiglia è a conoscenza del problema, che può essere tenuto nascosto anche per molto tempo. Infatti, è molto comune che una persona bulimica confessi le proprie difficoltà col cibo quando ormai il meccanismo si è strutturato. Soltanto perché sente che le strategie di controllo che ha provato a mettere in atto non funzionano.
Parlare in privato con la persona bulimica
E’ importante tenere a mente che chi ha un problema alimentare, prova vergogna per il suo comportamento. Ciò vale in particolare per le abbuffate che sono percepite in modo egodistonico. È opportuno quindi parlare con la persona in privato, cercando di essere gentili e delicati e incoraggiarla a cercare aiuto da un professionista esperto di tali problematiche.
Non cercare spiegazioni ma proporre soluzioni
Se siamo i genitori di una figlia che soffre di bulimia nervosa, spesso cerchiamo i perché. Iniziamo così a domandarsi: “dove ho sbagliato? È tutta colpa mia!”. Colpevolizzarsi non serve a niente, anzi spesso è controproducente.
Ad esempio, una madre che inizia a pensare che la colpa di tutto sia il cattivo rapporto con la figlia, tenderà a dare delle interpretazioni sulla base di questa spiegazione. Ad esempio: “Tutte le volte che si abbuffa, lo fa per farmela pagare”. Questa interpretazione genera impotenza ma anche rabbia che ovviamente si riversa nella relazione con il/la proprio/a figlio/a.
Evitare di criticare o controllare la persona che soffre di bulimia
Un atteggiamento di critica e un’elevata emotività espressa portano a sviluppare un clima familiare disfunzionale che può aggravare o mantenere il disturbo dell’alimentazione.
Allo stesso modo è importante non colpevolizzare la persona che ha un problema alimentare: “Non sei riuscita a trattenerti dal mangiare! Devi impegnarti!”. La bulimia nervosa, come gli altri disturbi dell’alimentazione, non sono affrontabili con la semplice forza di volontà. Serve prima di tutto conoscenza di quelli che sono i meccanismi che mantengono la problematica. A partire da questa, è possibile affrontarli con strumenti adeguati.
Non tenere cibo in casa o addirittura mettere sottochiave la dispensa, sono strategie che alcune volte i familiari mettono in atto con lo scopo di aiutare la persona a resistere alle abbuffate. Questi tentativi non sono utili, anzi incentivano la persona che soffre di bulimia a ricercare ancora più in segreto del cibo (es. comprando grandi quantità di cibo al supermercato).
Accompagnare la persona bulimica verso un percorso terapeutico adeguato
L’aiuto più importante che si può offrire ad un proprio caro o a una persona bulimica a noi vicina è quello di condividere con lei la nostra preoccupazione. Possiamo così incentivarla ad avvicinarsi ad uno psicoterapeuta che possa prima di tutto darle una spiegazione del meccanismo che la sta intrappolando. Successivamente potrà offrirle strategie per superarlo.
Esiste una specifica forma di terapia cognitivo comportamentale “potenziata” (CBT-E Cognitive Behavioural Therapy- Enanched) scientificamente validata e di grande efficacia. Questa consente di affrontare i processi cognitivi e comportamentali di mantenimento della psicopatologia che operano nel paziente affetto da disturbi dell’alimentazione.
Si tratta di una terapia individuale, ma è flessibile e personalizzata e può prevedere anche un coinvolgimento di genitori o di chi è vicino alla persona che ha un problema alimentare. Lo scopo è quello di favorire un ambiente familiare/sociale felice e spiegare come si può essere utili per aiutare la persona a trarre maggior beneficio dalla terapia CBT-E.