Parlare di aggressività non è semplice, trattandosi di un concetto polisemico e multifattoriale. I significati sono veramente molti, tanto che in letteratura troviamo più di 250 definizioni differenti di aggressività (Harre et al, 1983).
In primo luogo è una manifestazione della condotta presente in ambito animale ed in tal senso non è da considerarsi patologica. Può essere, in talune situazioni, essenziale per l’adattamento ambientale.Tra gli umani, specialmente nei suoi aspetti ritualizzati, può essere un’espressione culturale direttamente collegata a costumi e ambienti. Può essere in altri casi espressione di un disagio sociale nel quale le condotte aggressive sono da interpretarsi come epifenomeno. In altri casi ancora può essere espressione di uno stato psicopatologico.
Aggressività: definizioni e caratteristiche
Comprendiamo già da ora che non è valida l’equivalenza tra aggressività e disturbi mentali. Nell’immaginario collettivo tuttavia il rapporto tra aggressività e disturbo psichico è una delle associazioni più antiche e consolidate. In realtà, neppure in termini biologici l’aggressività può considerarsi un concetto unitario come rilevato dall’analisi di una serie di condotte molto differenti tra loro.
La fluidità dell’argomento ha consentito il moltiplicarsi di una vastissima letteratura in cui l’etologia, la genetica, la neurochimica e la psichiatria entrano a volte in conflitto con psicologia, filosofia e sociologia. Di certo c’è che nella fase attuale ci troviamo a vivere un paradosso. Il comportamento aggressivo, presente nel repertorio comportamentale animale e umano, col compito di salvaguardare il singolo e la specie, nell’uomo si è trasformata in una minaccia per la sopravvivenza.
Provando a comprendere meglio l’argomento, una definizione biologica potrebbe essere la seguente: una componente del comportamento normale che in forme differenti, a seconda dei finalismi da raggiungere e degli stimoli che la suscitano, viene messa in atto per rimuovere o superare qualsiasi minaccia all’integrità fisica e/o psichica, garantendo la salvaguardia del singolo e della specie, non risultando necessariamente, eccetto nell’aggressività predatoria, nella distruzione dell’oppositore (Valzelli 95).
Una definizione molto autorevole riguardante l’aggressività nell’essere umano rimane quella di Bond (’92): “Un comportamento diretto da un individuo contro un simile, un oggetto o verso sé con lo scopo di causare danno“. Alcuni possono pensare all’aggressività immaginando forme estreme, due sconosciuti che si prendono a pugni o si accoltellano. In realtà dobbiamo immaginarla in una prospettiva dimensionale che parte da forme lievi, quasi impercettibili, per arrivare a forme estreme.
Una recente ricerca della Georgia Regents University ha rilevato che nella maggior parte dei casi l’aggressività nella vita quotidiana è indirizzata con maggiore probabilità verso le persone che ci stanno accanto: familiari, amici, colleghi o partner. Sempre considerando l’aggressività nella componente dimensionale e nelle varie modalità d’espressione si sfata il luogo comune che vede il maschio come più aggressivo della donna. In realtà sembra che gli uomini manifestino l’aggressività mediante forme dirette mentre nelle donne prevarrebbero forme espressive indirette. Una fenomenica delle condotte aggressive tende a distinguere differenti tipologie (Attanasio, 2012):
- Un’aggressività attiva, nella quale l’individuo tenta di arrecare danno a un suo simile, mediante l’impiego della forza;
- Un’aggressività passiva, caratterizzata da atti di omissione (ad esempio il non prestare operazioni di aiuto verso chi si trova in uno stato di necessità);
- Un’aggressività diretta, nella quale si arreca danno con modalità mirata, in cui si utilizza il proprio corpo per arrecare sofferenza;
- Un’aggressività indiretta (ad esempio diffamare un soggetto per arrecargli danno)
- Un’aggressività autodiretta (in cui l’oggetto da aggredire diventa il sé );
- U’aggressività eterodiretta verso oggetti o persone;
- Un’aggressività reattiva, provocata da un torto subito e alimentata dal sentimento di vendetta;
- Un’aggressività proattiva in cui la violenza, sia essa fisica o psicologica, viene programmata con una strategia studiata per nuocere all’altro .
Quanto conta la componente genetica?
Uno studio effettuato presso l’Università di Montreal è riuscito a condurre una valutazione psicosociale su 555 coppie di gemelli, di cui 223 monozigoti e 332 eterozigoti. Avere a disposizione entrambe le tipologie di gemelli ha permesso di valutare se le differenze individuali rilevate fossero legate a fattori genetici o ambientali. Le condotte aggressive venivano registrate dagli insegnanti, per avere un punto di vista neutrale extrafamiliare, all’età di 6, 7, 9, 10 e 12 anni. I ricercatori si sono concentrati sui comportamenti aggressivi proattivi e reattivi. Per aggressività proattiva si intende una forma di aggressività caratterizzata da comportamenti fisici e verbali finalizzati al dominio o all’ottenimento di un vantaggio personale a scapito degli altri. Per aggressività reattiva viene fatto riferimento a quel tipo di aggressività caratterizzata da una risposta di difesa quando viene percepita una percepita.
La valutazione dei risultati ha fatto emergere che all’età di 6 anni si osservano nei bambini entrambi i tipi di aggressività, reattiva e proattiva, condividendo quasi totalmente gli stessi fattori genetici. Con la crescita si osserva che il comportamento aggressivo tende a decrescere, giungendo alla conclusione che tra i 6 ed i 12 anni i fattori ambientali hanno un peso maggiore rispetto alla componente genetica.
In quest’ottica viene considerata l’aggressività un elemento fisiologico e costitutivo dello sviluppo psico-sociale del bambino. Con la crescita il bambino impara a gestire meglio le proprie emozioni riuscendo ad adottare modalità di comunicazione più idonee al buon funzionamento sociale, percorso che dovrebbe proseguire e affinarsi sempre più nell’età adulta.
Gli autori dello studio hanno confermato delle ipotesi già avanzate in termini di prevenzione. Nelle forme di aggressività reattiva funzionerebbero meglio programmi finalizzati a ridurre le esperienze di vittimizzazione mentre nelle forme proattive potrebbero avere un maggiore potere preventivo programmi basati sullo sviluppo di valori pro sociali.
Meccanismi che intensificano l’aggressività
Un elemento trasversale che accomuna le diverse situazioni è la distorsione in cui prevale la convinzione che i conflitti interpersonali debbano essere gestiti tramite il potenziamento dell’aggressività. Ma solo le distorsioni cognitive non sono sufficienti a spiegare il fenomeno che si presenta a volte in maniera sproporzionata rispetto alla situazione e che spesso viene riconosciuto, a posteriori, dallo stesso soggetto agente come un qualcosa di altamente disfunzionale e disadattante.
Un fattore che amplifica le manifestazioni aggressive è sicuramente la suscettibilità neurofisiologica dell’individuo. Possiamo comprendere bene questo fenomeno in soggetti con tratti di personalità borderline o narcisistici (per fare un esempio; ovviamente nel disturbo che soddisfa pienamente i criteri diagnostici questi fenomeni possono presentersi in modo più marcato); soggetti con disabilità intellettiva o con danni cerebrali; abusatori di sostanze o di alcol; alterazioni legate a stati psicopatologici. Per citarne alcuni.
Anche in questo ambito le strutture neurologiche implicate sono diverse e dipendono dal funzionamento dall’amigdala e dell’efficienza della corteccia frontale, fermo restando che più che una singola area il risultato dipende dal cervello nel suo insieme. Tra i neurotrasmettitori la serotonina sembra rivestire un ruolo importante nella gestione dell’aggressività che appare inversamente proporzionale ai livelli di serotonina. Tra gli ormoni è stata data rilevanza al livelli di testosterone. Non dimentichiamo poi che il funzionamento cerebrale è condizionato anche dai fattori ambientali tra cui l’iperaffollamento urbano, l’inquinamento acustico e ambientale, le temperature molto alte e altro ancora (Aronson, Wilson e Akert, 2010).
Purtroppo al momento abbiamo poche terapie biologiche specifiche per l’aggressività in sè, per lo più si cerca di curare la problematica sottostante e in questo la psicoterapia cognitivo comportamentale può essere un valido aiuto.
BIBLIOGRAFIA
- Aronson, E., Wilson, T.D. and Akert, R.M. (2010) Social Psychology. 7th Edition, Pearson Prentice Hall, Upper Saddle River.
- Attanasio S. (2012). Psicologia Sociale e Devianza – Lezione 11: Aggressività.
- Bailey B, Women’s Psychological Aggression Toward an Intimate Male Partner: Between the Impulsive and the Instrumental. J Interpers Violence 2018 Nov 30:
- Gargione G. (2000). Psicologia: la nuova frontiera; Di Fraia Editore
- Hare R.D. Psychopathy and violence. R. Hays, T.K. Roberts, K.S. Solway (Eds.), Violence and the violent individual (1981). New York: Jamaica, N.Y.. Hare, 1983.
- Svrakic DM & Cloninger RC: Epigenetic perspective on behavior development, personality, and personality disorders. Psychiatr Danub 2010;22: 153-66.
- Valzelli L. Fortschr Neurol Psychiatr 1995;63:12-8.
- Valzelli L, Psicobiologia dell’aggressione e della violenza, Faenza Editrice, Faenza 1989,
- Zimbardo P, The Lucifer Effect: Understanding How Good People Turn Evil, Random House, New York 2007; tr. it., L’effetto Lucifero, Cattivi si diventa?, Cortina, Milano 2008.