Le emozioni sono fondamentali nella nostra vita. Tuttavia siamo spesso portati a considerare alcune emozioni più adeguate rispetto ad altre: alcune “positive”, altre “negative”; alcune “giuste”, altre “sbagliate”. In realtà questo etichettamento non è corretto.
Tutte le emozioni che proviamo sono importanti, anche la tristezza: sono state fondamentali per l’evoluzione della nostra specie e svolgono ancora adesso funzioni indispensabili per la nostra sopravvivenza e qualità di vita. Ad esempio, ci forniscono informazioni relative a situazioni che potrebbero essere pericolose o dannose per noi; sono strumenti utili per valutare le situazioni; possono agire come segnali per capire ciò di cui abbiamo bisogno, che ci piace o che desideriamo; possono suggerirci se avvicinarci o allontanarci da una certa situazione; oppure fornirci informazioni su come stiamo e sull’energia che abbiamo.
Sono, quindi, mezzi fondamentali per prendere decisioni ed effettuare scelte che siano “giuste” per noi in uno specifico momento, consentendoci di organizzare il nostro comportamento in maniera coerente con quello che va bene per noi.
Nonostante questo, però, tendiamo spesso a svalutarne l’importanza, assumendo atteggiamenti che non ci consentono di stare in contatto con alcune di loro. E questo vale, soprattutto, per quelle che tendiamo a considerare “negative” o “spiacevoli”. Tra queste troviamo la tristezza.
In relazione all’evoluzione della nostra specie la tristezza ha rivestito un ruolo fondamentale. La tristezza può, infatti, essere considerato un segnale che il nostro sistema di attaccamento si è attivato. Il sistema di attaccamento ci consente di segnalare all’altro il bisogno che abbiamo della sua presenza in momenti di difficoltà e costituisce le fondamenta delle nostre relazioni affettive più importanti.
Una delle funzioni principali della tristezza risiede proprio nel segnalare, alle persone a noi vicine, il bisogno della loro vicinanza, del loro sostegno, aiuto o conforto in momenti di difficoltà. E il pianto stesso, che può essere un indicatore di tristezza intensa, aiuta a esprimere agli altri ciò che proviamo e segnala loro questo bisogno di vicinanza e aiuto.
La tristezza riveste, quindi, un ruolo centrale nello sperimentare il supporto da parte degli altri, oltre che nello sviluppo e nel mantenimento delle nostre relazioni. Altra funzione importante svolta dalla tristezza è quella di consentirci di “raccoglierci”, promuovendo la riflessione e l’analisi profonda e autentica sugli eventi della nostra vita, con la possibilità di cercare un senso a quello che ci accade o al nostro dolore; e può favorire la riflessione anche su temi di vita più generali e esistenziali.
La tristezza è, quindi, fondamentale per elaborare gli eventi spiacevoli che ci accadono, ma ha anche la potenzialità di agire come stimolo al cambiamento: starci in contatto ci consente di farle svolgere la funzione di segnalarci che qualcosa non va, rifletterci e trovare un senso; ma anche di sollecitarci ad un cambiamento teso a raggiungere un equilibrio e un assetto che siano migliori per noi, mostrandoci nuove prospettive prima magari non visibili.
Ma ciò che pensiamo della tristezza, così come delle altre emozioni, e quindi le nostre valutazioni e credenze in merito, influenza la nostra disponibilità a starci in contatto ed esprimerla agli altri. La nostra cultura spesso ci porta a considerare la tristezza come un qualcosa che è meglio nascondere, non mostrare. E questo è vero soprattutto in certi ambiti di vita, dove la sofferenza propria e altrui sembra essere poco tollerata o accettabile. Ci troviamo spesso immersi in contesti competitivi che non favoriscono la libera espressione di emozioni che potrebbero farci apparire deboli, fragili, non abbastanza performanti o vincenti.
Quando l’espressione di emozioni come la tristezza viene considerata un rischio per essere valutati così dagli altri, possiamo sentire l’esigenza di nasconderla o mascherarla, soprattutto quando non sono presenti eventi oggettivi esterni significativi che potrebbero giustificarne la presenza, come una grave malattia, o la perdita di una persona a noi vicina.
Ma le motivazioni che possono sottostare alla poca disponibilità a stare in contatto con la tristezza ed esprimerla all’esterno possono riguardare anche altri piani. In alcuni casi si possono avere credenze relative al fatto che mostrare tristezza potrebbe significare mostrarsi non sufficientemente interessanti o attraenti per gli altri. E magari per questo anche essere lasciati soli.
Inoltre, nelle persone che hanno sofferto di depressione, è frequente il timore che sperimentare tristezza possa significare ricadere nel disturbo. E lo stesso timore può essere sperimentato da chi, pur non avendo sofferto di depressione in prima persona, ha avuto l’esperienza del disturbo in famiglia o in persone a lui vicine. In questi casi si può anche non essere disponibili a contattarla per timore di non poterla gestire, controllare o tollerare. O pensare che se si inizia a sentire la tristezza si potrebbe essere tristi per sempre.
La tristezza, come ogni altra emozione, è caratterizzata dall’essere uno stato transitorio. Vale però la pena sottolineare che la durata delle emozioni può essere influenzata da diversi fattori. Tra questi troviamo la valenza soggettiva dell’evento che le ha provocate e i meccanismi di rimuginio e ruminazione.
Tali meccanismi possono incrementare i pensieri relativi all’evento che ci ha fatto provare tristezza, facendoci sentire ancora più tristi, in un circolo vizioso che, oltre ad influenzare la durata dell’emozione stessa, potrebbe abbassare anche significativamente il nostro tono dell’umore o mantenere un disturbo depressivo quando presente.
Per consentirci di sentire la nostra tristezza ed esprimerla all’esterno, dobbiamo poi anche consentirci di dire a noi stessi e agli altri che, quantomeno in uno specifico momento, siamo vulnerabili, che abbiamo bisogno di qualcun altro, che non siamo totalmente in controllo. E questo non è facile per tutti: si può infatti avere paura di provare tristezza, se nella nostra storia di vita abbiamo imparato presto che, se abbiamo bisogno di qualcuno disponibile a sostenerci, non avremo la possibilità di trovarlo. E quindi si può imparare presto a non stare in contatto con questa emozione e negarne l’esistenza, per proteggerci dal rischio di non trovare qualcuno disponibile a sostenerci e fornirci aiuto quando ne avremmo bisogno: così si impara a “non sentire” e a fare tutto da soli, si crede di non aver bisogno di nessuno e di essere autosufficienti qualunque cosa accada.
In conclusione, la paura di sentire e stare in contatto ci porta spesso a vivere evitando le nostre emozioni. Ma questi meccanismi hanno costi importanti. È vero che contattare quello che sentiamo può essere a volte faticoso, doloroso, metterci davanti a problemi da affrontare. Ma è anche vero che non contattarle significa vivere una vita non piena.
Quali emozioni non sentiamo dipende da diversi fattori tra cui le caratteristiche del contesto in cui siamo cresciuti, la cultura di appartenenza, caratteristiche personali fra cui il nostro genere sessuale. Comunque, se anche inizialmente tendiamo a non contattare un tipo di emozioni in particolare, col passare del tempo tale difficoltà può generalizzarsi alle altre, impedendoci di assaporare il gusto di tutta la nostra vita.
Per cercare di non stare in contatto possiamo usare diverse strategie: non ci fermiamo mai impostando la nostra vita in modo da avere sempre qualche attività da svolgere e non avere spazi per connetterci con noi stessi e sentire autenticamente; assumiamo farmaci; tratteniamo quello che proviamo non consentendoci di sentirlo fino in fondo e impedendo alle emozioni di svolgere le funzioni per le quali esistono; o, ancora, assumiamo convinzioni che svalutino l’importanza che le emozioni rivestono per affrontare problemi e scelte rispetto al pensiero logico e alla razionalità.
Queste strategie possono anche essere funzionali e utili in alcuni momenti specifici. Ma non possono diventare il modo abituale di gestire la relazione con quello che proviamo nel tentativo di eliminarlo; anche perché le emozioni, tristezza inclusa, non sono eliminabili dalla nostra esperienza.
Tali atteggiamenti e comportamenti hanno il costo di farci perdere informazioni fondamentali per la nostra qualità di vita, influenzando in maniera negativa i livelli di soddisfazione che percepiamo. Inoltre ci impediscono di apprendere strategie adeguate per gestire le emozioni stesse: e questo può essere molto problematico, in quanto, quando alcuni accadimenti ci metteranno necessariamente nella condizione di sentire, non avremo gli strumenti idonei da utilizzare.
Così, non consentirci di sperimentare la tristezza ci priva della possibilità di imparare a gestirla: non ci consentiamo di sperimentare il fatto che abbiamo tutte le risorse necessarie per fronteggiarla o almeno imparare a maneggiarla. Non riusciamo a vedere che la tristezza è solo tristezza. E non la accettiamo come parte della nostra vita, una naturale fase di passaggio.
Tutti questi meccanismi possono indurre addirittura allo sviluppo di una vera e propria fobia per gli stati interni dolorosi. Per questo diventa fondamentale consentirci di esplorare gli stati emotivi dolorosi o di cui abbiamo paura. Ascoltarci, connetterci alle sensazioni fisiche e stare in contatto con quello che proviamo ci consente, infatti, di utilizzare i segnali che percepiamo in maniera per noi vantaggiosa e positiva, anche in termini di evoluzione personale, e ad averne sempre meno paura.