Sono recenti i casi di giovani ragazzi italiani che decidono di ritirarsi in casa e chiudere ogni rapporto con il mondo esterno.
Parallelamente si è diffuso anche nel lessico italiano la parola Hikikomori che racchiude in sé un alone di mistero ed esotica nebulosità. Questo termine nasce in Giappone durante gli anni ‘80 diffondendosi poi nel resto del mondo.
La prima descrizione di questo fenomeno venne riferita dallo psicologo giapponese Tomita durante la fine degli anni ’70. La parola Hikikomori deriva dal verbo hikikomorou che può essere tradotto come “ritirare sé stessi in un posto chiuso”, “ritirarsi in sé stessi”. In effetti, questo è il cuore dell’Hikikomori: una scelta consapevole di ritirarsi dalla società e dagli obblighi che essa impone.
Ogni paese ha tradotto il termine in modo diversi, ritiro sociale in Italia, claustration in Francia, NEETs (Not in Employment, Education or Training) in Inghilterra, ma tutti sottolineano la componente comportamentale di questo fenomeno cioè l’interruzione volontaria dei rapporti con altri esseri umani.
Secondo il Ministry of Health Labor and Welfare (MHLW) giapponese la condizione di Hikikomori colpisce in prevalenza gli adolescenti e gli adulti sotto i 30 anni e si caratterizza per un periodo di ritiro sociale che dura in media 3 anni con un ampio margine di variabilità (mesi o anni).
È importante sottolineare come su un piano sintomatologico, gli psichiatri americani Teo e Gaw considerano discriminanti per ipotizzare la presenza di Hikikomori le seguenti caratteristiche:
- Uno stile di vita centrato sulla casa (più spesso una sola stanza).
- Mancanza di interessi per la scuola o il lavoro.
- Almeno 6 mesi di durata.
- Sono escluse le persone che nonostante siano ritirate continuano a mantenere relazioni sociali.
- Sono escluse le persone affette da altre patologie come la schizofrenia, la disabilità mentale o altri disturbi psichiatrici.
Quest’ultimo punto risulta particolarmente importante per leggere quello che a tutt’oggi è il dibattito più acceso circa l’Hikikomori: patologia o espressione culturale di un malessere? La discussione è aperta.
Alcuni studiosi hanno proposto di suddividere il fenomeno dell’Hikikomori in due tipologie: Hikikomori primario per quelle persone che non presentano comorbilità con altre patologie psichiatriche; Hikikomori secondario per coloro che sono affetti anche da un’altra patologia (es. depressione, ansia, schizofrenia).
Altri autori, al contrario, ritengono che l’Hikikomori sia esso stesso un disturbo psichiatrico. D’altro canto l’ultima versione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM 5) non menziona l’Hikikomori, mentre in quella precedente (DSM IV-TR) questo era identificato come una sindrome legata alla cultura, cioè un insieme di sintomi, espressione di un malessere, specifici per il contesto giapponese. Quanto detto esprime bene la difficoltà di etichettare un fenomeno i cui confini devono essere ancora chiariti.
Al di là dei tentativi, pur necessari, di categorizzazione, sempre più autori ritengono l’Hikikomori un fenomeno epidemico che riguarda milioni di giovani, nonostante stime attendibili risultino difficili da ottenere dato l’alto numero di casi “sommersi” che non arrivano all’osservazione dei professionisti.
Si ipotizza che in Giappone la prevalenza nel corso della vita dell’Hikikomori sia del 1.2% e che il fenomeno sia ormai di portata globale essendone stati rilevati casi in paesi come Corea, Cina, USA, Spagna e Sud Italia. Di fronte a questa rapida diffusione appare spontaneo interrogarsi su quali siano le cause che contribuiscono al fenomeno dell’Hikikomori.
Per quanto non vi sia un consenso unanime in letteratura, è possibile identificare alcuni fattori di rischio che contribuiscono all’Hikikomori: la maggior incidenza di Hikikomori tra gli adolescenti maschi sembra essere connessa ad una specifica forma di ansia verso l’entrata, tipica della vita adulta, in una società caratterizzata da alti livelli di competitività; dove il debole è etichettato come perdente e rigettato dalla società stessa.
Piuttosto che assumersi il rischio di non trovare un proprio posto le persone con Hikikomori preferiscono evitare un potenziale fallimento ritirandosi in casa. Si viene così a creare uno stato che in psicologia è denominato helplessness, cioè una mancanza di fiducia nella possibilità di ricevere un aiuto esterno che, a sua volta, rinforza il ritiro sociale. In tale situazione sembra innestarsi una struttura familiare che favorisce la chiusura verso l’esterno e l’autarchia delle relazioni.
Non è un caso che la comparsa dei primi Hikikomori avvenga negli anni ‘70, periodo in cui il panorama sociale giapponese subisce profondi cambiamenti. In seguito alla seconda guerra mondiale il modello familiare tradizionale giapponese, basato sulla famiglia allargata, subì una profonda crisi. Si passò ad un modello occidentale in cui il padre restava per la maggior parte del tempo fuori casa e la madre diveniva la responsabile dell’educazione del figlio.
Il rapporto di dipendenza che caratterizza naturalmente il rapporto madre-bambino viene rinforzato e le madri sono socialmente incoraggiate a divenire iperprotettive e a gestire in maniera controllante il figlio. Il giovane, quindi, decide di gestire l’ansia generata dal non riuscire a trovare un posto nella società attraverso un ritiro volontario in casa (più spesso in camera) ottenendo, almeno inizialmente, un tacito rinforzo dai familiari. Il sistema familiare trasmette al ragazzo l’idea di un mondo cattivo e pericoloso dove solo la casa è un posto sicuro.
Sembra che in questa dinamica risieda il punto di contatto tra Giappone e Italia. Infatti alcuni casi di Hikikomori sono stati rilevati nel Sud Italia dove il modello familiare ha più somiglianze con quello nipponico. Lontano da grossolani stereotipi esiste effettivamente una somiglianza tra la cultura italiana e quella giapponese. Essa riguarda la tendenza delle famiglie a trattenere e incentivare la permanenza del giovane all’interno del nucleo familiare. In tal senso, similmente a ciò che accade in Giappone, il disagio psicologico troverebbe manifestazione nell’auto-reclusione forzata.
Se da un lato la famiglia appare un agente quanto meno di mantenimento dell’ Hikikomori, è da notare come un altro fattore chiave sia l’ essere stati vittima di bullismo durante il periodo scolastico. Subire del bullismo aumenta la sensazione di non avere gli strumenti per difendersi da una società aggressiva e competitiva.
Il giovane Hikikomori sente di non possedere le abilità comunicative per affermare sé stesso nella società e, al contempo, percepisce le pressioni sociali a costruirsi un futuro. La conseguenza di questo dilemma è la perdita di spinta verso gli aspetti relazionali e il ritiro in un porto sicuro come la propria stanza.
Infine, un ultimo fattore preso in considerazione dalla letteratura sull’Hikikomori è il rapporto con le nuove tecnologie. Secondo Kato e collaboratori, le nuove tecnologie potrebbero rinforzare il ritiro sociale in quanto offrirebbero mondi virtuali lineari e comprensibili agli occhi dell’adolescente. Le regole in questi mondi sono chiare, le ricompense esplicite, verosimili e, soprattutto, facilmente raggiungibili.
Nel mondo reale, al contrario, gli obiettivi sono più sfumati, le regole complesse e la frustrazione dei propri obiettivi molto probabile. Per sopravvivere è richiesta flessibilità e coraggio di esporsi al fallimento e alla vergogna. Il problema, presente anche quando si parla di trattamento, risiede quindi nella ego-sintonicità del ritiro sociale: si ha una perdita di motivazione nell’affrontare un mondo complesso con regole in continuo mutamento e per cui non esiste manuale di istruzioni. È comunque necessario sottolineare che il legame tra Hikikomori e internet è ancora da chiarire.
Non sono emerse correlazioni tra uso del computer e l’insorgenza di Hikikomori. Tuttavia, la rapida evoluzione dei dispositivi di comunicazione sembra poter contribuire in una certa misura al mantenimento del ritiro sociale così come associarsi ad un insieme di altre patologie (Dipendenza da internet, Dipendenza da social network, Dipendenza da gioco). E, tuttavia, le nuove tecnologie e più in generale il web, non devono essere demonizzate in quanto esse risultano un’importante risorsa per tentare un primo contatto con queste persone.
Le difficoltà di definizione del fenomeno non hanno permesso di strutturare protocolli di intervento universalmente riconosciuti. In Giappone il Ministero della Salute ha sviluppato alcune linee guida che prevedono quattro fasi per il trattamento dell’Hikikomori:
- Supportare la famiglia e ottenere un contatto con il giovane;
- Offrire supporto individuale al ragazzo;
- Includere il paziente in un gruppo terapeutico al fine di sviluppare le abilità sociali;
- Esercitare le abilità acquisite in situazioni reali.
Se la presa in carico della famiglia diviene un passo imprescindibile per il trattamento dell’Hikikomori, sul versante dell’intervento sul singolo è stato riscontrato una certa inefficacia delle sole terapie farmacologiche. Unica eccezione sembrano gli anti-depressivi, in particolare la Paroxetina, che ha mostrato qualche risultato nei casi in cui siano presenti pensieri ossessivi. È da sottolineare tuttavia come i dati siano ad oggi molto scarsi e, dunque, come sia prematuro trarre conclusioni.
L’approccio attualmente più utile sembra essere un intervento combinato di psicoterapia e farmaci. Per quanto riguarda gli interventi psicoterapeutici, quelli ad orientamento cognitivo-comportamentale sono i più utilizzati. Secondo la letteratura, data la somiglianza fenomenologica tra Hikikomori e Disturbo d’Ansia Sociale, interventi di gruppo a carattere prevalentemente comportamentale sembrano dare i migliori risultati. Questi interventi basano la loro efficacia su tecniche di progressiva esposizione alle situazioni considerate minacciose dalla persona con Hikikomori.
Il gruppo è utilizzato come luogo sicuro in cui esercitare e migliorare le proprie abilità sociali, spesso arrugginite dal lungo periodo di inattività, ricevendo accettazione e sostegno incondizionato. Come detto, però, il primo e più difficile passo resta quello di riuscire a instaurare un primo contatto con il giovane, a tal fine possono essere utilizzate le nuove tecnologie come le e-mail, Facebook e Skype.
Riassumendo, l’Hikikomori è un fenomeno con chiare radici psicologiche e sociali dai contorni ancora sfumati. I fattori di rischio per sviluppare Hikikomori sono: il sesso maschile in quanto tra i ragazzi l’insorgenza di Hikikomori è 4 volte maggiore rispetto alle ragazze; la primogenitura poiché è sul primogenito maschio che si concentrano le aspettative rispetto al buon nome della famiglia; la giovane età dal momento che l’esordio avviene solitamente tra i 19 e i 27 anni con il 23% dei casi nel primo anno delle scuole medie inferiori; il ceto sociale medio-alto con presenza di genitori laureati e l’essere stati vittima di bullismo scolastico.
Per quanto interventi strutturati non siano ancora stati sviluppati, la recente attenzione al fenomeno è sicuramente da incoraggiare nella speranza che questo faciliti la consapevolezza di un problema che colpisce milioni di giovani.