La sindrome da fatica cronica (Chronic Fatigue Syndrome, CFS) è una condizione patologica complessa caratterizzata da stanchezza prolungata, persistente e invalidante e da altri sintomi aspecifici, con conseguenze negative e restrittive sul funzionamento fisico e psicologico.
Deve essere presente per almeno 6 mesi, con un decorso non necessariamente permanente, ma con un esordio definito (Sharpe et al., 1991). Non esiste attualmente uno strumento che permetta di valutare la presenza della Sindrome. Per tale motivo, è una diagnosi che viene fatta prevalentemente per esclusione di altre psicopatologie.
Anche se la sindrome da fatica cronica e la depressione possano apparire per certi aspetti come sovrapponibili, la ricerca ha suggerito che la prima ha caratteristiche cognitive distinte (Moss-Morris & Petrie, 2001).
Tuttavia la ricerca ha anche scoperto che l’ansia, la depressione e la transitoria affettività negativa, sono significativamente associate con l’aggravamento della stanchezza nella sindrome da fatica cronica (Sohl &Friedberg, 2008).
Attualmente, nessuna eziologia biologica specifica è stata identificata per la CFS e può così essere considerata all’interno dello spettro dei sintomi clinicamente inspiegabili.
Un numero elevato di studi si sono concentrati sui processi cognitivi implicati in tale Sindrome. Alcuni di questi, hanno trovato nei pazienti con sindrome da fatica cronica un’associazione tra la tendenza auto-riferita a focalizzarsi sui sintomi e sulla disabilità correlata alla malattia (Ray, Jefferies, e Weir, 1995, 1997; Vercoulen et al., 1998).
Inoltre studi recenti hanno supportato l’ipotesi che la CFS possa essere caratterizzata da un processo di pensiero perseverante e disfunzionale associato al CAS (Cognitive Attentional Syndrome).
Infatti, vi sarebbe un bias interpretativo nel processamento dell’informazione somatica (Moss-Morris & Petrie, 2003), alti livelli di rimuginio correlato alla salute e preoccupazioni relative alle minacce per la salute (Aggarwal, McBeth, Zakrzewska, Lunt, & MacFarlane, 2006).
Infine, in pazienti con sindrome da fatica cronica sarebbero presenti bias attentivi nell’elaborazione di stimoli minacciosi per la salute (Hou, Moss-Morris,Bradley, Peveler, e Mogg, 2008). Tali scoperte sono state utili per spiegare il ruolo cruciale dei processi cognitivi e attentivi implicati nella sindrome da fatica cronica; tuttavia le credenze attraverso i quali tali processi sono influenzato devono essere ancora specificate.
Due tipi di credenze metacognitive sono state ipotizzate utili per predire la gravità dei sintomi da fatica cronica e la compromissione nel funzionamento fisico (Maher‐Edwards, Fernie, Murphy, Wells, & Spada, 2011):
- credenze circa la necessità di controllare i pensieri, le quali potrebbero contribuire al mantenimento di interpretazioni persistenti e negative circa i sintomi e all’attivazione di strategie di coping maladattive (es. ruminazione, soppressione del pensiero e rimuginio) che contribuirebbero al sovraccarico cognitivo, alla disabilità esecutiva e a sentimenti di fatica mentale e psicologica;
- credenze circa la mancanza di fiducia nella competenza cognitiva, la quale contribuirebbe alla gravità dei sintomi, limitando la scelta e l’implementazione delle strategie di coping adattive.
A partire da tali scoperte, diversi studi si sono occupati dei principali trattamenti ad impronta cognitivo-comportamentale, potenzialmente implicati nel trattamento della CFS.
I principali sono il modello di terapia cognitivo-comportamentale (CBT) ed il modello di terapia basato sull’esecuzione di esercizi fisici graduali (GET). Il modello CBT si occupa dei fattori che possono predisporre (ad es.perfezionismo) , scatenare (ad es. virus, stress e/o traumi) e mantenere (ad es. stress, emozioni negative, o modelli di comportamento tutto-nulla) i sintomi nella sindrome da fatica cronica.
Cambiamenti nei comportamenti di evitamento e nelle relative credenze sono associati ad un buon esito nella CBT (Deale, Chalder and Wessely, 1998).
Il modello GET per la CFS si basa invece sul concetto di decondizionamento. Dopo l’esposizione ad un iniziale trigger alla CFS (ad es. un’infezione virale), le risposte maladattive di coping (es. dormire per ristabilirsi) vengono decondizionate.
I pazienti vengono incoraggiati a stabilire un “esercizio baseline” (per una durata dell’esercizio che non porti ad esacerbare i sintomi) e gradualmente ad incrementare per prima cosa la durata e successivamente l’intensità.
Il meccanismo di cambiamento nella GET si basa sulla modificazione dell’interpretazione circa le sensazioni somatiche (Moss-Morris, Sharon, Tobin and Baldi, 2005). Trials controllati randomizzati (RCT) hanno dimostrato l’evidenza di efficacia di tali trattamenti (Moss-Morris et al., 2005; Prins et al., 2001).
Una ricerca recente (Fernie, Murphy, Wells, Nikcevic & Spada, 2016) ha permesso di mettere a confronto questi due trattamenti per la sindrome da fatica cronica considerati più efficaci nella pratica clinica, la CBT (Cognitive Behavioural Therapy) e la GET (Graded Excercise Therapy), basandosi sulle scoperte del trial PACE (White et al., 2011).
Hanno inoltre fornito l’evidenza dell’efficacia di tali trattamenti, i quali sembrano ridurre la fatica, l’ansia, la depressione, oltre ad incrementare il funzionamento fisico.
Precedenti studi avevano già dimostrato come affiancando la terapia cognitiva comportamentale (CBT) e l’esecuzione di esercizi fisici graduali (GET) alle cure mediche specialistiche (terapie a base di antidepressivi e farmaci antiinfiammatori non steroidei a basso dosaggio, SMC) si ottenesse un recupero dei sintomi da stanchezza cronica tre volte superiori rispetto alla sola terapia SMC (Sharpe et al., 2015).
Lo studio del 2016 di Fernie et al. ha inoltre esaminato se il cambiamento metacognitivo, misurato con il Metacognitions Questionnaire-30 (MCQ-30), potesse essere considerato un predittore significativo dell’esito del trattamento.
Tuttavia, mentre è possibile che le meta-credenze ipotizzate fossero indirettamente affrontate nella CBT, è improbabile che lo fossero nella GET (Wells, 2011).
Le credenze negative circa i pensieri di incontrollabilità e di pericolo potrebbero portare a valutazioni negative delle esperienze cognitive, tali da attivare processi di pensiero perseverativo (es. rimuginio) e cambiamenti fisici in grado di alterare la fatica fisica percepita e le proprietà benefiche del riposo, oltre a contribuire alla stanchezza mentale.
Altrimenti, la relazione tra tali credenze e i cambiamenti nella gravità della fatica potrebbe riflettere un decremento nel rimuginio e nei sintomi di preoccupazione, variabili che sembrano mediare gli esito di trattamento nella GET (Moss-Morris et al., 2005).
Le meta-credenze relative all’incompetenza cognitiva potrebbero riflettere le difficoltà cognitive riportate dai soggetti con sindrome da fatica cronica. I miglioramenti in tali fattori cognitivi potrebbero essere dovuti alla riduzione della fatica stessa e al conseguente miglioramento di funzioni esecutive come concentrazione e memoria.
D’altra parte, le meta-credenze negative sulla fiducia cognitiva dei pazienti potrebbero comportare un’inibizione delle strategie di coping, quando affaticati.
Nonostante tali considerazioni, sono necessari ulteriori studi per indagare il ruolo delle credenze metacognitive nei livelli di gravità della sindrome da fatica cronica e l’effetto predittivo che esse hanno, al netto di altre variabili considerate.Inoltre, in altre ricerche, altri mediatori, furono considerati implicati nel cambiamento terapeutico.
In particolar modo, la modificazione delle credenze relative all’evitamento della paura (ad es. il timore che l’esercizio o l’attività fisica potessero peggiorare i sintomi ed il conseguente evitamento dell’attività fisica) e l’iper-focalizzazione sulla fatica, furono considerati importanti per predire l’esito del trattamento (Chalder, Goldsmith, White, Sharpe and Pickles, 2015).
Concludendo, sia CBT che GET (Fernie et al.,2016) hanno incontrato alti livelli di soddisfazione da parte dei pazienti, il che suggerisce che tali trattamenti sono ben accolti nonostante le controversie alle quali sono talvolta associati negli studi controllati randomizzati.
Infine, queste studi suggeriscono l’importanza della ricerca di specifici fattori metacognitivi che potrebbero essere implicati nella CFS e determinare un approfondimento di tale condizione, anche dal punto di vista terapeutico.
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