Il disturbo da accumulo o Disposofobia è un disturbo mentale recentemente riconosciuto come entità autonoma e categoria a sé stante nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) ed è attualmente categorizzato nella macrocategoria “Disturbo ossessivo-compulsivo e disturbi correlati” (American Psychiatric Association [APA],2013).
Le caratteristiche principali del disturbo da accumulo comprendono la tendenza ad acquisire e conservare una grande quantità di oggetti, una marcata incapacità di disfarsene nonostante non abbiano nessun valore apparente, ed una compromissione del funzionamento quotidiano causato soprattutto dalla difficoltà a mantenere in ordine gli spazi domestici (APA,2013).
Gli individui con Disturbo da accumulo sono spesso resistenti al cambiamento, e i sintomi possono perdurare per tutta la vita (Grisham, Frost, Steketee, Kim, e Hood, 2006). Inoltre se non trattata, la gravità dei sintomi probabilmente peggiorerà ad ogni decade che passa (Ayers, Saxena, Golshan, e Wetherell, 2010). Anche se studi recenti hanno riferito che l’esordio iniziale si verifica frequentemente durante l’infanzia e l’adolescenza (APA, 2013; Ayers et al., 2010), l’età media di coloro che cercano il trattamento è 50 anni (Samuels et al., 2008).
Questo è spiegato dal fatto che i sintomi diventano generalmente clinicamente significativi con l’età (APA, 2013). Inoltre, spesso coloro che sono affetti da tale condizione non richiedono direttamente un trattamento per il disturbo da accumulo, ma per la presenza di un disturbo in comorbidità (Tolin et al., 2008) rendendo la richiesta poco immediata e portando in terapia sintomi che ormai risultano piuttosto gravi e cronicizzati (Ayers et al., 2010; McGuire et al., 2013).
Uno studio recente condotto da Frost e collaboratori (2015) ha evidenziato le principali motivazioni che potrebbero essere implicate nell’accumulo patologico di oggetti privi di valore apparente.
Da un’approfondita indagine ad opera degli autori è emerso che le motivazioni maggiormente riportate da coloro che soffrono del disturbo sono: a) l’attaccamento emotivo agli oggetti; b) la preoccupazione e l’evitamento degli sprechi; c) motivazioni estetiche e d) il contenuto informativo dell’oggetto.
Tutte e quattro le motivazioni sono risultate più frequenti nei clinici, piuttosto che nei gruppi di controllo. Indagare e comprendere le motivazioni soggiacenti può risultare utile ai fini dell’impostazione del trattamento.
Secondo un recente articolo pubblicato da Kress et al. (2016) che ha sintetizzato i dati più rilevanti in letteratura sulla diagnosi ed il trattamento del disturbo da accumulo, la terapia cognitivo-comportamentale è considerata il trattamento di elezione (Steketee, Frost, Tolin, Rasmussen, & Brown, 2010; Tolin et al, 2007).
Tuttavia, ricerche precedenti hanno dimostrato che i protocolli CBT utilizzati con pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo sono inefficaci con coloro che presentano disturbo da accumulo (Mataix-Cols, Marks, Greist, Kobak, & Baer, 2002; Steketee e Frost, 2003).
In molteplici studi che esplorano la CBT per gli individui con disturbo ossessivo compulsivo, i comportamenti da accumulo si sono rivelati un predittore significativo di drop-out, di scarsi risultati e di vantaggi clinici minimi rispetto a quelli senza comportamenti da accumulo (Mataix-Cols et al., 2002; Steketee e Frost, 2003).
Di conseguenza, sono stati sviluppati protocolli specifici CBT per la disposofobia concentrandosi in particolare sulle credenze e sui comportamenti disfunzionali legati all’accumulo, sulla riduzione dello stress emotivo, e sui potenziali deficit correlati di processamento delle informazioni (Frost & Hartl, 1996; Steketee e Frost, 2007; Tolin et al., 2007).
Il trattamento cognitivo-comportamentale si concentra sulla riduzione dei sintomi all’interno delle tre aree principali del disturbo: la disorganizzazione, la difficoltà nel buttare via e liberarsi degli oggetti accumulati e la tendenza all’acquisizione eccessiva.
Le componenti del trattamento includono (a) skills training finalizzato a rinforzare il problem solving, il processo decisionale, e l’organizzazione; (b) esposizione graduale in immaginazione o in vivo agli stimoli stressanti (esposizione e prevenzione della risposta (ERP) e (c) ristrutturazione cognitiva delle credenze disfunzionali correlate al disturbo (Steketee e Frost, 2007; Tolin et al, 2007).
Nella letteratura attuale, non sono state riportate differenze di trattamento sulla base di sesso, razza o etnia. Tuttavia sono necessarie ulteriori indagini esplorative sull’efficacia di tali interventi (Steketee et al., 2010).
La ricerca ha dimostrato l’utilità di integrare nell’approccio CBT l’utilizzo di visite a domicilio e di tecniche derivanti dal colloquio motivazionale, che sembrano migliorare gli esiti del trattamento (Steketee et al., 2010). Le tecniche del colloquio motivazionale hanno come scopo quello di migliorare la consapevolezza, incrementare l’aderenza al trattamento rispetto ai compiti a casa e ridurre la resistenza nel portarlo a termine.
Steketee e Frost (2007) hanno realizzato un protocollo di 26 sedute settimanali che comprendono sia visite a domicilio che sul luogo di lavoro da parte di operatori sociali. Anche le visite domiciliari consentono infatti ai terapeuti di migliorare e mantenere la motivazione del paziente, oltre a fornire assistenza nel liberarsi degli oggetti e nelle abilità di organizzazione e gestione della casa (Muroff, Steketee, Bratiotis, e Ross, 2012).
In uno studio qualitativo volto ad indagare la soddisfazione di clinici e pazienti circa il trattamento per il Disturbo da Accumulo con la CBT, i pazienti hanno riferito di aver trovato efficaci soprattutto le visite domiciliari in supporto agli obiettivi concordati, la pianificazione del trattamento e la generalizzazione degli esercizi di esposizione (Ayers, Bratiotis, Saxena, Wetherell, 2012).
Altre ricerche hanno dimostrato che i pazienti con disturbo da accumulo possono trarre beneficio oltre che dalla terapia cognitivo-comportamentale, da interventi basati sulla famiglia, da approcci multidisciplinari basati sulla comunità e dalla farmacoterapia.
Gli approcci terapeutici basati sulla famiglia includono la psico-educazione e la formazione delle figure genitoriali e possono essere particolarmente utili nei casi di bambini e adolescenti con disturbo da accumulo (Ale et al., 2014).
Ale e colleghi (2014) hanno riportato che i comportamenti di accumulo nei bambini sono spesso rinforzati dalle risposte comportamentali dei genitori. Tuttavia l’efficacia di tali interventi deve essere ancora testata; di conseguenza i risultati dovrebbero essere interpretati con cautela.
Poiché il disturbo da accumulo colpisce un’ampia varietà di settori di vita, la ricerca ha dimostrato che un approccio multidisciplinare basato sull’ausilio della comunità potrebbe migliorare i risultati del trattamento (Muroff et al. 2012). Questo implicherebbe l’utilizzo delle risorse della comunità, e l’assistenza di professionisti provenienti da diverse discipline.
Bratiotis (2013) ha teorizzato un approccio multidisciplinare per tale disturbo simile agli interventi utilizzati per affrontare i problemi sociali come la violenza domestica e gli abusi sui minori. Ad esempio, le visite a domicilio da parte di non clinici addestrati potrebbero fornire supporto e assistenza nell’organizzazione e nell’eliminazione degli oggetti accumulati negli spazi domestici.
Per quanto riguarda infine gli interventi farmacologici, non esistono attualmente studi controllati randomizzati che ne hanno testato l’efficacia (Kress et al., 2016), sebbene vi sia una qualche evidenza che i sintomi di accumulo possono migliorare con l’utilizzo di antidepressivi SNRI e SSRI quando sono in comorbidità con sintomi depressivi o ansiosi. Tuttavia l’aderenza al trattamento farmacologico può risultare problematica per la cattiva gestione dei farmaci causata dalla disorganizzazione degli ambienti in cui vivono.
Le prime ipotesi circa la combinazione del trattamento psicoterapico con gli interventi farmacologici indicano una maggiore efficacia rispetto alla modalità singola di trattamento (Saxena, 2011).
Bibliografia
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