Un luogo comune porta a definire, non sempre ma spesso, “folli” i soggetti che si macchiano di crimini particolarmente violenti ed estremi.
Nel clima mondiale di terrore che si è creato a partire dal famoso 11 settembre, il tema si allarga, facendo sorgere dubbi sulla salute mentale dei terroristi.
Almeno qualche volta abbiamo avuto il dubbio: “Ma gli autori di stragi terroristiche sono matti?”. Provando a fare una ricerca si osserva che in letteratura non vi sono molte evidenze scientifiche che il disturbo mentale sia alla base delle violenze terroristiche.
Sembra strano ma al momento non troviamo neppure definizioni concordanti su ciò che definiamo terrorismo o terrorista: i mafiosi che nel fare attentati – per terrorizzare lo stato e portarlo a una trattativa – hanno ucciso vittime innocenti, erano terroristi? Coloro che sapevano che le loro fabbriche tossiche portavano a morte operai e abitanti e, nonostante i dati allarmanti e inconfutabili, cercavano di tranquillizzare l’opinione pubblica dal clima di terrore che si stava diffondendo, erano antiterroristi?
Ci viene in aiuto il senso comune e alla fine troviamo un accordo nel linguaggio quotidiano; in linea di massima abbiamo un’idea condivisa di terrorista, sappiamo a cosa ci stiamo riferendo.
Chi cerca di studiare il fenomeno, dal punto di vista psicopatologico, si rende conto immediatamente che si troverà davanti uno spettro di mentalità terroristiche accomunate dall’impiego della violenza, anche contro civili, con l’intento volontario di raggiungere obiettivi ideologici, politici o psicologici.
C’è chi individua una differenza tra terrorismo separatista/indipendentista (vedi Irlanda, Spagna o Alto Adige nell’Italia degli anni ’60) e terrorismo legato a estremismi religiosi (come quello presente nell’area mediorientale).
Ci soffermeremo su quest’ultimo nel quale vi è un elemento differenziante: la presenza di condotte suicidiarie dell’assalitore. Tali suicidi vanno inseriti in un contesto culturale – non psicopatologico – in cui viene posto in primo piano il martirio.
La morte darà una ricompensa in una vita ultraterrena. Tale assetto mentale è già presente all’ingresso nel gruppo terroristico, l’operazione di indottrinamento è stata già fatta. Chi opta per il martirio ha già avuto modo di concettualizzarlo prima, la partecipazione alla guerra santa è una conseguenza di una riflessione che sta a monte.
Una volta ufficializzata l’appartenenza al gruppo viene fornito l’addestramento tattico strategico, non c’è bisogno di altro. Il suicidio rientra in un gesto di martirio, la rinuncia alla vita per un bene più grande. Potremmo considerare ciò al massimo un malattia culturale, non una malattia mentale.
Volendo utilizzare degli elementi di psicologia possiamo ipotizzare in questi soggetti delle strutture mentali poco elastiche, incapaci di assumere punti di vista differenti, che operano mentalmente selezionando ciò che conferma le loro tesi e scartando ciò che le mette in crisi, con la tendenza a saltare subito alle conclusioni e con un’incapacità a mettersi nei panni dell’altro.
Ma tutte queste sono caratteristiche che possiamo trovare in molte strutture di personalità non terroristiche. Non sono elementi specifici della mentalità di un terrorista. Da un punto di vista medico sono certamente organismi con alti livelli energetici di base – immagino ci voglia tanta energia di base per fare il terrorista – ma in modo non dissimile da quella presente in molti imprenditori.
Tutti gli elementi sembrano davvero mettere in risalto l’assetto culturale più che psicopatologico. Se ciò è plausibile per soggetti provenienti direttamente dai paesi in cui sono strutturate da secoli quelle realtà culturali, come sarebbero da intendersi i soggetti occidentali, nati e cresciuti in contesti culturali totalmente differenti, che si distaccano dalla propria struttura sociale e culturale per entrare a far parte di gruppi terroristici?
Chi ha cercato di studiare questo fenomeno si è reso conto che tirare in ballo la povertà o la tipologia di religione non è sufficiente a spiegare il fenomeno: in occidente vi sono circa 50 milioni di convertiti all’Islam che non hanno nessuna intenzione di unirsi ai gruppi terroristici – anche tra coloro che presentano credenze radicali islamiche solo pochi entrerebbero in un’organizzazione terroristica – , per non parlare del numero di soggetti che stanno conoscendo da tempo lo stato di povertà e non contemplano una eventuale loro partecipazione in qualunque tipologia di pugna, sia essa santa o no.
Anche per i foreign fighters la questione sembrerebbe più legata a fattori psicologici piuttosto che a una malattia mentale conclamata.
Non si unirebbero soggetti psicopatici o vittime di un lavaggio del cervello ma giovani calati nella vita quotidiana, in una fase di transizione sociale, spesso sulla linea del confine sociale, in fase di crisi di identità, sicuramente ostili al sistema occidentale.
Personalmente sono del parere che questi soggetti non godano di buona salute, verosimilmente hanno una patologia sottosoglia, ma non vi sono elementi per asserirlo con certezza. Restano aperte tante domande: la realtà è che sono personalità non valutabili
. Il profilo psicologico viene solo ipotizzato, costruito in base a notizie “a posteriori”o a racconti di vicini e conoscenti e un assessment fatto in ambiente carcerario non credo abbia la loro collaborazione a farsi valutare sotto il profilo psicologico.
In conclusione, vale comunque la pena soffermarsi a pensare, dal momento che comprendere la mentalità di costoro non vuol dire accettare o minimizzare la gravità di tali condotte, ma iniziare a costruire percorsi preventivi più articolati ed efficaci – si è visto che il solo controllo non è sufficiente – in un periodo in cui anche noi ci troviamo costretti a fare i conti con i nostri sistemi di credenze e schemi di valore.