Il fenomeno della dissociazione è stato esplorato fin dalla nascita delle discipline psicologiche, sviluppato, abusato e poi accantonato insieme al concetto di trauma.
L’interesse ritrovato per la psicotraumatologia ha riaperto la strada alla ricerca in quest’ambito e prodotto un gran numero di conoscenze, soprattutto in ambito neurobiologico, riguardo al trauma e alla dissociazione.
Nella sua accezione più ampia, con il termine dissociazione si intende semplicemente che due o più processi o contenuti mentali non sono integrati. Solitamente si assume che questi elementi dissociati dovrebbero essere integrati nella consapevolezza cosciente, nella memoria e nell’identità.
Tuttavia, questa non integrazione può riguardare anche i processi di pensiero, le emozioni, la funzionalità sensomotoria e i comportamenti.
La sintomatologia dissociativa è costituita primariamente da cinque componenti cliniche: l’amnesia, la depersonalizzazione, la derealizzazione, la confusione identitaria e l’alterazione dell’identità.
Sono fenomeni spesso complessi, sia da individuare e diagnosticare che da rendere consapevoli al paziente all’interno del processo terapeutico.
Ciò che ormai è assodato è che i disturbi dissociativi possono essere concettualizzati come una modalità disfunzionale di autoprotezione dalla minaccia, in contrapposizione all’autoregolazione come primaria modalità di funzionamento all’interno di un ambiente sicuro.
Da qui la concezione, non del tutto condivisa, che la dissociazione sia una condizione correlata a situazioni traumatiche. A seconda della durata (un singolo evento o un’esposizione prolungata) e del periodo di vita (ad esempio quello dello sviluppo) dell’esperienza traumatica possono esserci più o meno danni ai meccanismi di integrazione dell’esperienza che tutti quanti naturalmente possediamo.
Questo ha portato ad approfondire il concetto di trauma e dei sintomi ad esso correlati. Alla generale definizione di trauma come evento improvviso che mette in pericolo la nostra incolumità (un incidente, un’aggressione, etc.) che, come nel Disturbo Post Traumatico da Stress può provocare sintomi di iperarousal, sintomi depressivi e momenti di flashback dell’evento vissuto, si aggiunge una concezione più articolata di trauma come esposizione prolungata a eventi stressogeni o disorganizzanti all’interno di relazioni interpersonali che dovrebbero invece rappresentare l’ambiente sicuro che stimola, forma e mantiene le capacità di autoregolazione.
Questa seconda concettualizzazione di trauma ha negli anni destato sempre più interesse portando molti clinici a proporre nuove categorie nosografiche che potessero comprendere caratteristiche più ampie, tanto che nell’International Classification of Desease, 11th version (ICD-11), di prossima uscita, verrà proposta la categoria di Disturbo Post Traumatico da Stress Complesso.
Questo ampliamento nosografico porta a considerare criteri che aiutano a includere aspetti più complessi della realtà clinica del trauma, come alterazioni nella regolazione delle emozioni e del comportamento, disturbi della coscienza e dell’attenzione, somatizzazioni, alterazione della percezione di sé, disturbi relazionali e alterazione nei significati personali.
Ampliare aiuta a comprendere, e comprendere aiuta a elaborare nuove strategie di trattamento che facilitino la gestione di situazioni sintomatologiche complesse attraverso strumenti nuovi e sempre più integrati.
La psicotraumatologia contemporanea si avvale di questo nuovo corpus di conoscenze per integrare vari interventi sempre più evidence based.
La terapia cognitivo-comportamentale utilizza da sempre validi strumenti per la comprensione e il fronteggiamento dei sintomi post-traumatici mutuabili anche per il disturbo post-traumatico complesso, come la psicoeducazione sui sintomi e sulle loro cause, l’esplorazione delle credenze patogene, la scoperta guidata e le tecniche espositive, che possono aiutare il paziente ad affrontare con maggior consapevolezza le manifestazioni emotive e cognitive a cui può andare incontro.
Tuttavia, negli ultimi anni, con gli approcci di terza generazione, ci si è focalizzati molto sui processi bottom-up, prendendo in considerazione non solo gli aspetti delle funzioni mentali superiori (verbali) ma partendo dall’integrazione mente-corpo e dalla capacità di osservare la propria esperienza corporea (preverbale) come una chiave di accesso alla regolazione funzionale delle emozioni.
La terapia basata sulla mindfulness, ad esempio, aumenta la capacità di sperimentare sensazioni, emozioni e pensieri dolorosi scoraggiandone l’evitamento e risultando efficace per la gestione dei sintomi di iperattivazione emotiva o depersonalizzazione corporea.
L’approccio EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) è una delle tecniche più utilizzate nel DPTS e si è rivelata molto utile anche per il Disturbo Post-Traumatico Complesso e per i Disturbi Dissociativi.
Integrando ulteriormente queste due modalità con tecniche cognitivo-comportamentali e psicodinamiche si è evoluta, prendendo sempre più campo nel trattamento delle esperienze traumatiche complesse, la Psicoterapia Sensomotoria.
Questa si prefigge, come primo scopo, quello di migliorare le capacità del paziente di autoregolare l’iperattivazione somatica causata dalla disregolazione emotiva traumatica, ed evitare che questa possa causare l’inaccessibilità ad alcuni stati mentali problematici e provocare difficoltà nel percorso terapeutico.
Aiutando il paziente regolare le funzioni sensomotorie si favoriscono sia una miglior regolazione emotiva che l’accrescimento delle capacità metacognitive (di autoriflessività e mastery).
Si promuove quindi quell’integrazione dell’esperienza che anche al livello somatico spesso viene meno, cambiando il punto di partenza (il sentire piuttosto che il pensare) ma giungendo al medesimo, e forse più completo, traguardo.