Vi sono persone per le quali la tendenza ad affaticarsi facilmente diventa il problema principale, coloro che soffrono di cosiddetta fatica cronica.
Sicuramente la maggior parte di noi si collocherebbe in questo gruppo, almeno considerando certe fasi della nostra vita. In realtà per le persone affette da questo disturbo la problematica è molto più seria.
Sintomi della sindrome da fatica cronica
I sintomi sono molteplici ed eterogenei:
- intenso malessere dopo esercizi fisici anche di minima entità
- sintomi simil influenzali
- sonno non ristoratore
- sensazione di annebbiamento mentale
- una costellazione di sintomi non meglio specificabili
Il quadro non sembrerebbe così raro se consideriamo che solo negli Stati Uniti il disturbo coinvolge circa un milione di persone, tra adulti e bambini.
Spesso riguarda persone appartenenti a minoranze etniche o razziali o di basso livello socio-economico.
Individuare correttamente la sindrome
Gli esami standard di laboratorio quasi sempre non rilevano anomalie e questo spiega il perché capita che a volte le persone affette da tale quadro possano essere considerate simulatori, depressi o soggetti “psicosomatici”.
La diagnosi differenziale con un disturbo depressivo potrebbe essere fatta chiedendo al soggetto: “Cosa faresti se tu non fossi malato?”. Nei disturbi depressivi di solito la persona non saprebbe cosa rispondere. A differenza dei soggetti con affaticamento cronico che invece elencano molteplici attività che ritengono piacevoli e che vorrebbero svolgere.
Nella comunità scientifica vi sono studiosi che considerano il quadro specifico, autonomo, chiaro nelle sue manifestazioni, dandogli così una dignità d’esistenza. Altri ritengono invece che non vi siano elementi sufficienti per parlare di una sindrome da fatica cronica chiara e ben definita, negandone anche l’esistenza.
Le persone affette da tali sintomi in media vengono visitate da almeno 4 medici prima di ricevere la diagnosi specifica. La diagnosi può essere formulata anche dopo un lasso di tempo che va da 1 a 10 anni dall’esordio.
La storia della diagnosi
Il nome di sindrome da fatica cronica iniziò ad essere impiegato alla fine degli anni ’80 del secolo scorso negli USA; in Gran Bretagna, Canada ed altri paesi per lo stesso corteo sintomatico è stata preferita la dicitura “Encefalomielite mialgica” (ME).
Molti pazienti non accettano di buon grado che il loro disturbo venga definito “sindrome da fatica cronica”. Questo perché ritengono che l’espressione stessa banalizzi un quadro che può essere anche molto grave e invalidante, certamente molto più di un semplice iper-affaticamento.
Nella comunità scientifica si è cercato di trovare un compromesso nel dare un nome a questo disturbo, impiegando il termine ME/CFS. Ciò porrebbe l’attenzione anche sulla componente biologica e non solo sull’affaticamento cronico.
A breve saranno aggiornati i criteri diagnostici per tale disturbo e con molta probabilità verrà modificata anche l’etichetta diagnostica, proprio alla luce dei nuovi dati provenienti dalla ricerca biologica.
Le cause della fatica cronica
Sembra infatti che il disturbo derivi da una risposta abnorme del sistema immunitario a un numero elevato di agenti ambientali o infettivi. Questa verrebbe a determinare uno stato di infiammazione cronica, una disregolazione del sistema nervoso autonomo, una disfunzione del sistema ipotalamo-ipofisi-surrene con conseguente disfunzione neuroendocrina.
E’ stata osservata una ridotta attività citotossica delle cellule natural killer ed un innalzamento dei livelli di citochine pro-infiammatorie.
Una predisposizione genetica sarebbe alla base dell’attivazione eccessiva delle risposte infiammatorie a stimoli ambientali minimi.
Altre indagini effettuate a livello intracranico indicherebbero un’atrofia della sostanza bianca, bilateralmente, a livello di alcune aree cerebrali.
Purtroppo tutti questi dati non consentono al momento di formulare diagnosi certe o di individuare il disturbo nelle fasi precoci in modo da poter attuare una profilassi.
Le terapie disponibili per curare la fatica cronica
Così come al momento non vi sono terapie specifiche: l’ipotesi infiammatoria ha spinto a impiegare farmaci antinfiammatori. A volte vengono impiegati gli antidepressivi perché innalzerebbero la soglia del dolore.
Sono stati osservati miglioramenti anche con psicoterapie cognitivo-comportamentali e con lo svolgimento di esercizi fisici da svolgere gradualmente. Anche se molte volte i pazienti rifiutano questo tipo di approccio perché non ritengono che il problema possa derivare da aspetti psicologici o possa migliorare con psicoterapie.
Credo che questo disturbo sia paradigmatico della scissione, a mio avviso errata, che ancora permane tra mente e soma; come se l’essere umano possa essere colto solo in una delle due componenti.
Lo pensano i clinici che leggono il disturbo come un problema esclusivamente su base psicogena, lo pensano i pazienti che rifiutano qualsiasi ipotesi che lo stato psichico possa influenzare la componente fisica.
In realtà corpo e cervello funzionano come un tutt’uno e si influenzano reciprocamente. Non ha senso continuare con scissioni frutto di un pensiero cartesiano che ha avuto la sua grande importanza nella storia occidentale ma che alla luce del nostro presente andrebbe rivisto.
Probabilmente la psiconeuroendocrinologia, nel riuscire a cogliere meglio di altre discipline l’unione “mente-corpo” potrà fornirci qualche elemento ulteriore di riflessione.
Almeno me lo auguro.